La profondità di un sentimento non risiede solo in quello che diciamo, ma anche nel modo in cui scegliamo di dirlo. È forse questa convinzione che ha fatto di me una nostalgica amante dell’arte perduta dello scrivere lettere. Nel 1876, John Willis Westalake, professore di letteratura inglese, scrive un manuale di scrittura per corrispondenze, note e cartoline: How to write letters. In questo piccolo volume, si legge: Non si dovrebbe mai guardare ad una lettera come un mero mezzo di comunicazione, ma anche e soprattutto come ad un’opera d’arte. I suoi consigli spaziano dall’importanza della calligrafia (curata e leggibile; non avendo tempo, meglio una lettera corta ma scorrevole che una lunga ma vergata con poca eleganza), alla qualità complessiva della scrittura (assolutamente vietate cancellazioni ed aggiunte; piuttosto, meglio riscrivere tutto da capo su un foglio nuovo), fino a giungere ad una lista di carte e inchiostri particolari a cui attingere per ogni occasione.
Per quanto anacronistica possa sembrare una lettera nell’epoca dei botta e risposta immediati al largo di social e messaggistiche varie, prendersi il tempo di scegliere cosa scrivere e di leggere cosa è stato scritto nei personalissimi caratteri della mano libera resta un gesto d’amore a cui, nella storia, sono ricorsi i più grandi artisti, musicisti e scrittori.
L’argomento che quasi monopolizza la corrispondenza tra i famosi è lo stesso che occupa le pagine della maggior parte delle lettere al mondo: l’amore. Tra le più belle corrispondenze amorose, quella tra Virginia Woolf e Vita Sackwille-West merita un posto d’onore: entrambe scrittrici, entrambe legate mani e piedi ad un mondo che nemmeno considerava l’amore omosessuale, le loro lettere sono dolcissimi e disperati richiami, cinguettii da rami lontani dello stesso albero. Scrive Virginia, tutto d’un fiato, nel gennaio del 1927:
Guarda, Vita – abbandona il tuo uomo, solo per un momento, e vieni qui. Andremo agli Hampton Court e ceneremo sulla riva del fiume insieme e insieme cammineremo per i giardini, e poi torneremo a casa e berremo una bottiglia di vino ed io diventerò brilla e ti dirò tutte quelle cose che non si possono dire di giorno, ma solo al buio sulle rive dei fiumi – milioni, miliardi di cose. Abbandona il tuo uomo, per un po’, e vieni da me.
Lo stesso gennaio, Sackwille-West rispondeva così:
Sono ridotta ad un esserino che vuole Virginia. Avevo composto una bellissima lettera per te, durante le ore degli incubi notturni, quando non si riesce a dormire, ma ora è tutto sparito. Tutto quello che riesco a dire è: mi manchi, nella più semplice e umana delle maniere.
Una lettera d’amore può però essere una lettera d’amore anche se il sentimento non è diretto verso il lettore… Ma verso la corrispondenza stessa. Ne sono esempio le bellissime lettere dell’attore Sam Shepard, che in tempi recentissimi scriveva all’amico Johnny Dark:
Se c’è una cosa che ho realizzato scrivendo lettere, è che si tratta di una conversazione, una conversazione che è sempre disponibile. Ti puoi alzare una mattina qualunque e metterti a parlare con qualcuno, e non ha nessuna importanza che quel qualcuno sia effettivamente presente. Puoi parlare di qualsiasi cosa e non sei costretto ad aspettare che l’altro ti risponda per concludere il filo del discorso […] Ma non fraintendermi: più di ogni altra forma di conversazione, la lettera dipende dalla tua partecipazione. Io scrivo per te, per tenere aperta la porta della nostra relazione – nel tempo. Una conversazione su carta può durare anche 40 anni, come la nostra. È questo il segreto della nostra amicizia.
E in che modo uno scrittore potrebbe esprimere gratitudine per chi l’ha scoperto scrittore, se non scrivendo? È quello che fa Charles Bukowski, riconosciuto come uno dei grandi del ‘900, eppure esploso non giovanissimo: a quarant’anni lavorava alle poste e teneva una piccola rubrica per un giornale minore di Los Angeles, Open City. È così che lo scovò l’editore John Martin nel 1969, quando gli offrì uno stipendio di cento dollari al mese per lasciare il suo impiego giornaliero e dedicarsi alla scrittura full-time. Nel 1986, in una lettera di ringraziamento per quel suo primo mecenate, Bukowski riflette sulla sua vita e scrive così:
La fortuna di esser venuto fuori da quel posto, da quel lavoro, mi ha dato una specie di felicità, la felicità del miracolato. Sono ora quello che chiamano uno scrittore professionista, chi l’avrebbe mai detto? Ti scrivo da una mente vecchia in un vecchio corpo, eppure sento che aver cominciato in tarda età mi dia il dovere di continuare e che pure quando le parole mi abbandoneranno e dovrò essere aiutato a salire le scale e non saprò più dire la differenza tra una spillatrice e il mio uccello, anche allora ricorderò come tu mi abbia aiutato a trovare una morte più dolce che non l’omicidio del dovere. Forse, non aver completamente sprecato la mia vita è già aver raggiunto un degno obiettivo, almeno per me.
Molto prima di facebook e dell’illusione di poter facilmente conversare con i nostri idoli, nel 1812 Emilie, un’aspirante pianista appena bambina, invia a Ludwig Van-Beethoven una dolcissima lettera, esprimendo tutta la sua ammirazione e chiedendogli cosa fa di un artista, un artista. Beethoven le risponde:
Un artista è un uomo poco presuntuoso, mia dolce amica Emilie: è colui che avverte le infinite possibilità dell’arte, e che non è rattristato dalla consapevolezza di quanto sia distante il suo obiettivo di perfezione.
Le infinite possibilità dell’arte sono anche quelle che tengono insieme un matrimonio attraverso il tempo e le distanze, tramite lettere piene di parole d’amore, certo, ma anche… di giochi! La corrispondenza tra il grande scrittore russo Vladimir Nabokov e sua moglie Vera Slonim, infatti, è formata da meravigliosi piccoli puzzle che lui si divertiva ad inviarle e lei a risolvere: test, cruciverba, allitterazioni e sciarade si alternano così ad appassionate dichiarazioni d’amore:
Sì, ho bisogno di te, mia fiaba. Perché sei tu l’unica persona al mondo con cui posso parlare della forma di una nuvola, della musica di un pensiero […] Tu sei approdata alla mia vita, non come arriva una visitratrice, ma come una che giunga in un regno in cui ogni fiume stava aspettando solo il suo riflesso, ogni strada solo il suo passo.
Ed è amore anche abbandonarsi ad un addio, anche inviare un’ultima lettera d’arrivederci ad un amico che non c’è più, perché le conversazioni non finiscono con la morte, cambia solo il modo d’ascoltarsi. Patti Smith, la sacerdotessa del rock, scrisse nel 1989 una splendida lettera per l’amico e fotografo Robert Mapplethorpe, portatole via dall’AIDS. E non c’è modo migliore di concludere questa mia piccola eulogia alle lettere che citarla nella sua interezza:
Mio caro Robert,
spesso resto sveglia, a letto, e mi chiedo se sei sveglio anche tu. Sei triste, ti senti solo? Tu mi hai tirata fuori dal periodo più buio della mia giovane vita, hai condiviso con me il sacro mistero di cosa significhi essere un artista. Ho imparato a leggerti tra le righe e mai più ho composto un verso o disegnato una curva che non provenisse dal tesoro del nostro tempo insieme. Il tuo lavoro è stata la nuda canzone della tua giovinezza. Mi parlavi allora di come volessi intrecciare le tue mani a quelle di Dio. Ricorda, ricordalo attraverso tutto, quelle dita sono sempre state tra le tue. Stringi forte, ora, Robert, e non lasciarle andare. […] L’altra sera, quando sei scivolato nel sonno sulla mia spalla, ho sentito che me ne andavo anche io. Ma prima, guardando per un’ultima volta tutte le tue cose e tutti i tuoi strumenti e andando indietro negli anni della mia memoria, ho pensato che tra tutti i tuoi lavori, sei tu il più bello. La tua vera opera d’arte, sei stato tu.
Patti.
Marzia Figliolia