Un concerto degli Imagine Dragons non è solo musica.
È catarsi. È comunità. È un urlo che parte da “Fire in these Hills” e finisce con “Believer”. Chi c’è stato lo sa: torni a casa con gli occhi lucidi, la voce rotta… e l’anima piena.
Al Diego Armando Maradona si celebra la Giornata Internazionale della Musica con il concerto degli Imagine Dragons e io sono qui per raccontarvela.
Se non ci conoscessimo, sono Corrado Parlati e questo è MentiSommerse.it, un magazine ribelle, un rifugio virtuale dove ti racconto le storie più belle legate al mondo della cultura.
LA NOTTE DEGLI IMAGINE DRAGONS AL MARADONA
Dopo l’energico open act del cantautore britannico Declan McKenna – che strizza l’occhio al glam e al brit pop, senza dimenticare di omaggiare un gigante come David Bowie con “Heroes” – alle 21:17 si accende la Starry Night del Diego Armando Maradona.
La Curva, che chiude l’abbraccio di tribune e distinti, potrebbe essere un quadro di Van Gogh o una notte stellata nel deserto del Nevada, dove si ambientano le scenografie che accompagnano gli Imagine Dragons, sospese tra l’America e uno scenario simil lunare.
Si apre con “Fire in these Hills”. “Lasciate la mente aperta, il cuore libero: questa notte è per tutti coloro che stasera, da sconosciuti, diventano parte di una grande famiglia”, ricorda Dan sul palco dando il benvenuto ai fan accorsi da ogni parte d’Europa per la tappa partenopea del “Loom World Tour”, per poi dare il via a Thunder, accolta con un boato.
Perché Dan non era il ragazzo cool del liceo. Era quello strano, silenzioso, pieno di sogni troppo grandi per essere spiegati. Quello che, appena tornato a casa, si chiudeva in cameretta, a tredici anni, apriva il pc e cominciava a scrivere. E “Thunder” è la sua rivincita. Una canzone che parla a chi, almeno una volta nella vita, si è sentito fuori posto. A chi ha detto di no, quando tutti dicevano sì, scegliendo di percorrere la propria strada, anche a costo di restare solo. Il “thunder” non è solo un suono.
È la voce di chi non ha più paura di farsi sentire.
Questo – oltre le atmosfere festose di “Take me to the Beach” con mega palloni da spiaggia lanciati sul pubblico, i fuochi d’artificio e i coriandoli che accompagnano praticamente ogni brano rendendo la serata un tripudio di sorprese ed effetti speciali – è il tema conduttore della serata, che esplode nella doppietta composta da “Radioactive” e “Demons”, collegate da un outro di batteria con Dan Reynolds che raggiunge Daniel Platzman alle percussioni sul finale per poi recarsi alle tastiere e dare il via a una magica introduzione alle tastiere che rende ancor più toccante il secondo brano.
Il tutto definisce l’inizio di una nuova era, un nuovo suono. Nessuno scenario post apocalittico o fantascientifico: è Dan che dà il benvenuto a se stesso in una nuova epoca di luce e felicità dopo le tenebre. Walking the Wire arriva dopo un discorso toccante di Dan. Parla di depressione. Di quanto sia importante iniziare un percorso terapeutico, condividendo le proprie emozioni senza chiudersi in sé stessi.
La band è in forma smagliante, al suo apice performativo: ogni musicista si ritaglia il proprio spazio, gli assoli di Wayne Sermon alla chitarra e Ben McKee al basso ricamano un vestito che aderisce perfettamente alla performance di Dan Reynolds, che si conferma uno dei frontman più carismatici del panorama pop-rock mondiale.
“Bad Liar” e “Wake me up” sono accolte con un boato dai presenti, con le voci che si uniscono a formare un mega coro a supporto di Dan Reynolds, il momento acustico con “Next to me” e “I bet my life” arriva dritto al cuore cambiando improvvisamente i bpm della serata.
E se è vero che, a volte, il dolore è l’unico maestro che ci resta, “Believer” rappresenta il processo di accettazione e la trasformazione che ne consegue. Un brano che nasce da una frattura, da un periodo in cui Dan Reynolds combatteva contro una malattia cronica e un blocco creativo.
Non è un inno alla sofferenza. È un grido di liberazione. Un modo per dire: nonostante tutto, sono ancora qui. E ora credo persino nel dolore, perché mi ha reso ciò che sono. Quando parte “Believer”, sul palco del Maradona, il cerchio si chiude: la rinascita è completa. I fuochi d’artificio accendono per l’ultima volta la notte calata sopra lo stadio, prima di lasciare spazio all’outro strumentale di “Fire in these Hills” e alle emozioni che affiorano dopo un live del genere.
Emozioni che restano, sospese come coriandoli nell’aria, anche quando la musica è finita.