Dal cuore di Napoli, tra folklore e psicologia, fiabe e spiritualità, emerge la voce di DADA’ – cantautrice, performer e narratrice di un universo poetico che trasforma la ferita in forza. In questa intervista esclusiva ci accompagna dentro il mondo di Core in Fabula, un concept album che intreccia folk, spoken word, musica napoletana e ritualità contemporanea.
Tra attacchi di panico sublimati in canzoni, personaggi ispirati alla marginalità urbana e una spiritualità tutta terrena, DADA’ ci guida in un racconto che è insieme fiaba e terapia, denuncia sociale e ricerca identitaria.
Dopo una serie di singoli dalle sonorità retrofuturiste, la partecipazione a X-Factor e un EP, DADA’ torna sulle pagine di MentiSommerse per presentare il suo nuovo lavoro.
Se non ci conoscessimo, sono Corrado Parlati e questo è MentiSommerse.it, un magazine ribelle, un rifugio virtuale dove ti racconto le storie più belle legate al mondo della cultura.
Core in fabula: il nuovo concept album di DADA’
“C’era una volta l’anima mia”: l’inizio di un viaggio interiore
C’era una volta l’anima mia” è un po’ l’incipit del viaggio. In che modo questo brano rappresenta per te un rito di ingresso nel mondo narrativo di “Core in fabula”?
Questo brano è nato inizialmente in inglese, quando ero più piccola, e il titolo era “Overlooking”, quindi “guardare oltre”. C’era un viaggio, un tentativo di sporgersi oltre. Riscrivendola in napoletano – senza rispettare una traduzione, ma con nuove emozioni – mi è Venuto spontaneo fare una sorta di invocazione alla mia anima.
L’ho riscritta nel 2022, un anno duro per me emotivamente, segnato da attacchi di panico. Non mi riconoscevo più. Mi ricordo che, quando l’ho sentita per la prima volta mi sono emozionata. Mi sono sentita davvero chiamata da dentro. Ho pensato di metterla come incipit proprio perché, alla fine, una verità mi ha chiamata. E con questa canzone speravo di chiamare anche a me l’anima di chi l’avrebbe ascoltata.
“Bussa Bussa” e la fuga poetica dall’attacco di panico
E al tema degli attacchi di panico è dedicata Bussa Bussa, in cui disegni una sorta di fuga poetica e sonora dal mondo degli attacchi di panico. Cosa hai scoperto dentro di te guardando quell’abisso e qual è stata la porta casa che ti ha accolto?
L’attacco di panico è qualcosa di che fa piacere sapere che più persone possano provare, perché ti senti unico in quel momento, in maniera negativa. Pensi di essere il solo a poter patire quella condizione. In realtà no, però anche una cosa molto personalizzata, come un vestito nero cucito addosso. Quindi sei tu che devi capire poi come mai ti sia finito questo vestito addosso, cosa devi fare per toglierlo e non strapparlo, perché più cerchi di strapparlo più in realtà ti si incolla.
Questo è ciò che ho voluto suggerire anche con questo abito creato per questo brano da Daria D’Ambrosio. Io sono completamente intrappolata in un abito che mi dà le sembianze di baco. Ho scoperto la trasformazione.
L’ho scoperta nei miei occhi, perché la cosa più difficile è stata guardarmi allo specchio e avere paura dei miei stessi occhi impauriti. Quindi se anche i propri occhi risultano così fragili è veramente difficile poi credere agli occhi altrui, perché proprio i miei nello specchio in quel momento erano veramente assenti.
Invece di scappare sono rimasta a guardarmi metaforicamente. Poi con tutto quello che conviene fare in questi casi, come un percorso di psicoterapia, sono riuscita a trasformare tutto questo sia nel quotidiano sia nella musica.
Anche “bussa bussa” proviene dal 2022 però abbiamo aspettato il momento giusto per metterla in questo insieme di favole, storie anche un po’ folk horror.
Psicologia, identità e musica: il pensiero junghiano in “chiave popolare” del nuovo concept album di DADA’
E nell’intero concept album c’è tantissima psicologia, penso al tema dell’identità di Igor, a “Bussa Bussa”, la questione femminile che ritroviamo in “Serpa”. Secondo me attinge anche molto dal tuo percorso accademico e personale. Quali sono stati i riferimenti che ti hanno guidato nella stesura di questi testi?
Devo ammettere che sono paziente junghiana da 9 anni, quindi è chiaro che diciamo questa figura con questa poetica grandissima mi abbia abbracciato tantissimo nel pensare alle mie cose. E se le mie cose sono anche la mia musica è chiaro che il pensiero più vicino a me è quello Junghiano, ci siamo frequentati tanto più che altro.
Credo che la psicologia alla fine sia di tutti. È una scienza particolare, perché riesce ad avere il suo successo, il suo merito, la sua soluzione, la sua efficacia quando diventa semplice e quotidiana tra la gente.
Quindi la mia massima ispirazione è sempre dal popolo, inteso come cerchia di persone che vive gioie e miserie.
Mi sono specchiata più che altro nelle miserie mie e quindi anche del collettivo e le ho raccontate da un punto di vista che musicalmente potesse sorreggere una sorta di ribellione e forza, perché i suoni sono volutamente in contrasto con la mia voce soffiata.
Ho voluto raccontare anche l’intimità e la delicatezza di certi sentimenti.
Serpa è il victim blaming, una sofferenza prettamente femminile, perché vado a raccontare una realtà, dando dignità e valore anche alla vergogna e al senso di colpa, a tutti quei sentimenti orribili che si provano prima di poter riuscire a dire “Ma forse merito di scendere da questa croce”…
Il processo è una cosa a cui tengo tanto e l’ho capito alla luce di questi momenti interiori bui ho capito che a me serviva la gradualità.
Se vogliamo usare una metafora, io nella storia dei tre porcellini sono il quello che costruisce la capanna dalle fondamenta, perché ho capito che la casetta mi starà in piedi più tempo ed è affascinante notare non solo i successi, i fallimenti o le gioie e dolori degli esseri umani, ma proprio il fatto che nel mentre si vive. È questo che il mio album cerca di sviscerare.
“Igor”: identità di genere, libertà e l’urgenza narrativa di Core in Fabula
In “Igor” si percepisce un’urgenza narrativa rara: la libertà di essere se stessi diventa un tema poetico e civile. Ascoltandola, mi ha ricordato la storia di “Chillo è nu buono guaglione”, di Pino Daniele. Come è nato questo personaggio, e che responsabilità hai sentito nel dargli voce?
Ho avuto la fortuna di scriverla in adolescenza. Adesso che ho 30 anni mi rendo conto di aver parlato di una tematica in una maniera molto naturale, legittima, perché secondo me la sensibilità è di tutti.
Io non vivo la disforia di genere, però è mio interesse sapere l’altra persona come sta, come si sente e cosa deve ancora affrontare semplicemente per essere se stessa o vivere.
Quindi ho questa facoltà di interessarmi alle persone con la mia sensibilità. Credo che comunque anche se una cosa non mi riguarda in prima persona, mi riguarda sempre perché la mia libertà combacia con quella dell’altro.
Ho semplicemente pensato ad Igor, un signore che faceva i trasporti qui nel quartiere e non era di nazionalità italiana. Vedendolo ho immaginato una storia, perché mi è piaciuto immaginare che dietro quella fisicità estremamente spinta, anche un po’ machista, ci fosse una delicatezza.
Arturo Muselli è stato fenomenale nel trasformare questo desiderio nel volto, quindi a smascherare un po’ l’identità di Igor, e mi sono sentita super felice di del fatto che sia stata comunque accolta e rappresentata in un certo modo perché non avevo preoccupazione in merito.
Mi è stato chiesto se avessi avuto il permesso di parlare di disforia di genere, ma credo che quando si debba chiedere il permesso non c’è integrazione o comprensione, empatia. Quindi l’ho fatto spontaneamente e sono contenta se ho raccontato bene.
Poi si inserisce bene nel tuo percorso. L’anno scorso hai fatto per Verd Min un video con Tarantina…
Sono molto affascinata da qualsiasi persona abbia il coraggio di lanciare in aria la propria identità, con tutto quello che comporta, perché anche Tarantina mi ha raccontato la sua sofferenza.
Anche io per potermi esprimere ho avuto una sofferenza. Sono affascinata e sono contenta che alcune persone anche più forti o con esperienze più vivide della mia abbiano potuto farmi un po’ da madrine in questa in questa ricerca spasmodica dell’identità.
Leonilda, Rafilina e le donne dell’universo favolistico di quartiere di DADA’
Restando nei vicoli del tuo quartiere chi è Rafilina e come si inserisce nel filone delle donne dell’universo DADA’?
Rafilina è mia nonna, che abita di fronte a me con cui ho abitato fino ai sei anni. È una donna in realtà molto riservata e dolce e molto forte. Ho preso in prestito il suo nome per regalarlo ad una papera di mia invenzione, che cammina nel bosco di Capodimonte e si piglia a parole da sola.
Probabilmente sono appunto persone e personaggi che mi hanno abitato talmente tanto il cuore che non posso fare a meno di evocarli.
Quindi poi ho voluto usare queste escamotage fiabesco per fare un esercizio di scrittura, perché è stato divertente metricamente incastrare parolacce e aneddoti. Curatella qua qua qua è proprio il giullare di questo castello delle fiabe
Spiritualità popolare e arte sacra: da Caravaggio alla Madonna Nera
Nel disco, sono presenti anche tante figure religiose o spirituali. Abbiamo citato Serpa, ma anche la Madonna Nera o l’Angelo. Qual è la tua visione della spiritualità?
Quando tocco queste figure, mi ritrovo molto vicina a Caravaggio, che amava prendere persone misere in termini di povertà, di dolore, quindi persone in realtà vive, che venivano considerate al confine, e cercava di dargli un ruolo, una pagina identitaria, e questo non andava bene al contesto religioso di quell’epoca.
Vivo la spiritualità come qualcosa di molto umano, nel senso che prendo da terra, quindi dalle radici, e un po’ dal cielo, però mi piace stare nel mezzo, perché io sono un’umana di fondo e credo che mi è concesso stare a mezz’aria.
Ho capito che, non per fare Carmelo Bene, l’uomo stesso è un po’ Dio, nel senso che a mezz’aria noi possiamo veramente essere creatori delle cose che viviamo. Dico a mezz’aria perché spingersi oltre potrebbe far perdere un po’ il senno, come nel caso di Dedalo e Icaro.
Penso alla spiritualità come un modo per poter stare a mezz’aria, sollevati con i piedi da terra ma comunque non su una nuvola, un modo per essere umani, attingendo dal carnale ma anche dallo spirituale particolare.
Io ho interpretato più volte la Madonna, anche nei progetti precedenti, penso a Smorfiosa ad esempio.
Nel video di Serpa aiuto Daria D’Ambrosio a scendere dalla Croce e la innalzo come Crista. Il mio intento è scavare nella deformità dello spirituale per portare alla luce poi il la bellezza dell’umano.
Credo che ci sia ancora tanta bellezza nell’umano, nonostante appunto questa Madonna Nera adesso sia pietrificata dalle guerre.
È una realtà che esiste, che non ci piace per niente, e non per questo io smetto di credere comunque nelle fiabe, nel fatto che un uccellino metaforico possa portare di nuovo veramente l’acqua dal mare
L’uomo ha bisogno delle fiabe, ho detto che un uomo senza fiaba è più povero di un uomo senza Dio.
Certo è che se la racconto ad un bambino qui nel mio quartiere riecheggia in un modo, se la racconto a un bambino che adesso è a Gaza riecheggerà in un altro modo perché anche le fiabe portano dentro quello che tu stai vivendo.
“Povere” e la morte dolce
E di spiritualità ce n’è tantissima anche in povere, in cui racconti la morte come una presenza quasi timida, come se chiedesse una carezza. Come hai costruito questa voce e che rapporto hai oggi con questa idea di di trasformazione?
Ho sempre avuto paura da bambina della morte. Era una cosa che mi ossessionava, più che la morte dolore in sé, il fatto di dover finire. Ho talmente sognato di autopercepirmi, quindi di avere una piena identità, da aver paura di perderla prima di averla.
E anche questo brano l’ho scritto in adolescenza, è nato chitarra e voce e poi l’ho l’ho prodotto. Qui c’è un morto che piange sé stesso, nel senso che uno dei miei pensieri che mi ossessionava era quanto quella persona sarebbe stata dispiaciuta per il fatto di essere morta.
Sicuramente sono stata ispirata da tantissimi altri artisti, tra cui Tom Waits, perché in un suo brano parla della tomba di un fiore. Flowers Grave parla di un fiore che porta un fiore a se stesso.
Povere è sicuramente un brano molto tenero molto, dolce, che mi emoziona tantissimo e nel condividere il brano provavo la stessa timidezza del protagonista, pensando a come sarebbe stata accolta, e mi ha colpito il fatto che in realtà a detta degli ascoltatori abbia saputo raccontare la morte in una maniera dolce, perché alla fine non ci vedo la paura ma ci vedo la dolcezza di un mancarsi e di un automancarsi.
“Avrò una favola”: l’infanzia ferita e il ruolo delle emozioni negate
In “Avrò una favola” invece ci metti davanti al dolore dell’amore paterno negato. Cosa significa per te raccontare un dolore così forte come quello dell’infanzia?
Per me significa semplicemente aver fatto pace con un’emozione, detto in modo autobiografico. In generale significa dare più spazio e più dignità a qualcosa, anche alla luce di tutte queste anche mode un po’ psicologiche di far risalire tutto al padre.
Essere figlio di genitori divorziati è una dimensione che spesso il bambino si trova a vivere da solo perché, per quanto gli adulti possano essere accurati, informati, si lascia il bambino che ha una morbidezza d’animo e psicologica particolare a dover affrontare da solo certe emozioni, un vissuto che non deve essere necessariamente violento o particolarmente crudo, ma è comunque è un vuoto.
Un vissuto che ha un sussulto, e il bambino se lo spiega in un determinato modo.
Ho voluto dare una pagina di questo mio libro delle fiabe, anzi di favole, sia a me stessa sia ad altri bambini, ma anche ai genitori, perché credo che gli adulti non debbano dimenticare, quando leggono le favole e le fiabe, che in quel momento si sta scrivendo l’anima di una persona mentre si vive, quindi la gentilezza, l’accoglienza, l’empatia, il tener conto anche di una piccola anima è il modo migliore per poter scrivere quantomeno con coscienza.
Il core in fabula di Gaia: dal al lupo e i sette capretti ad Angela Carter
E allora chiudiamo proprio pensando alla Gaia bambina. Ho visto qualche giorno fa un post su Instagram con un bellissimo vestito di Daria che un po’ scava nei libri di fiabe della piccola Gaia. Quali sono le fiabe che più ti hanno influenzata?
Quelle tra l’altro quelle pagine di fiabe sono proprio prese dai miei libri di fiabe. Non ti dico il panico nel fotocopiarli, la paura che si rompessero. Sicuramente ero molto affezionata alla fiaba del lupo e i sette capretti.
Mi piaceva l’idea che i figli potessero riconoscere la mamma capra dalla zampetta bianca, anche se c’era il lupo che voleva mangiarseli e si sporcava le le zampe con la farina per ingannarli.
Mi piaceva questa questa attenzione al dettaglio di riconoscere un legame attraverso un segno fisico. Da adulta ho riscoperto Cappuccetto Rosso scritta da Angela Carter. Mi piace sempre citare questa versione in cui c’è la fanciulla Cappuccetto, che nelle fiabe viene sempre vista come desiderabile ma intoccabile, come capace di suscitare grande fame anche nella bocca di un lupo, che è tipicamente un uomo ma poi deve rimanere pura e non può partecipare a questa enfasi, a questa pulsione.
Angela Carter fa sì che Cappuccetto Rosso consumi un rapporto con il lupo, mentre le ossa della nonna scricchiolano sotto il letto. Questo per rielaborare anche un po’ il ruolo delle fiabe. Io non sono d’accordo sulla censura di alcune fiabe, perché penso che le fiabe raccontano un’epoca in maniera simbolica.
È chiaro che la fiaba in realtà debba spaventare e debba lasciare delle macchie degli echi interni e se si impedisce a questo lavoro psicologico di poter fare il suo percorso.