Nel cuore di Camden Town, tra i graffiti che profumano di ribellione e i dischi in vinile che raccontano storie di gioventù e libertà, Marco Ligabue firma una ballad che è molto più di una canzone: Le canzoni inglesi è una cartolina sonora spedita da Londra al cuore di chi, almeno una volta, ha vissuto la vertigine di sentirsi invincibile tra le note del Brit Pop.

Il nuovo singolo del cantautore correggese è un tuffo nella memoria, dove la nostalgia non è resa ma consapevolezza, e la musica diventa ponte tra quello che eravamo e ciò che, in fondo, siamo ancora.

Elton John, Oasis, Blur: non solo ispirazioni, ma testimoni di un’epoca che continua a parlare attraverso le corde della sua chitarra.

In questa intervista, Marco ci accompagna lungo le strade di una Londra personale e universale, tra ricordi, sogni e quel sorriso che resiste alla disillusione.

“Le canzoni inglesi” è una ballad che unisce nostalgia e ribellione. Se dovessi trasformarla in una vera cartolina da Londra, quale sarebbe la frase scritta sul retro?

“se potessimo tornare indietro veramente
Con la macchina del tempo con la metro
con un’auto sgangherata…”

È una frase che riassume un po’ tutto: la nostalgia per un’epoca che mi ha formato e la ribellione sana che la musica inglese mi ha insegnato.

Camden, Notting Hill, Soho: nel videoclip attraversi la Londra iconica degli anni ’90 e quella pulsante di oggi. Qual è il ricordo più potente che ti lega a quella città e alla musica brit pop e qual è stata la scintilla che ti ha portato a scrivere questo brano?

    Il ricordo più forte è un viaggio che feci da ragazzo, senza un soldo ma con la testa piena della musica di Elton John, Oasis e Blur. Ricordo la sensazione di libertà totale, il sentirsi piccoli ma anche invincibili.

    La scintilla è nata proprio da lì: da quell’energia che la musica inglese aveva e ha ancora. Mi sono chiesto cosa resta, dentro di noi, di quella stagione della vita. “Le canzoni inglesi” è la mia risposta.

    Elton John, Oasis, Blur… Quali sono le “canzoni inglesi” che ti hanno insegnato a raccontare emozioni con sincerità, e che ti hanno ispirato in questo brano?

      “Don’t Look Back in Anger” degli Oasis è un inno generazionale, ma anche un modo di guardare al passato senza rimpianti.

      “Rocket Man” di Elton John mi ha insegnato che anche un testo surreale può arrivare dritto al cuore.

      E poi “The Universal” dei Blur, che riesce a raccontare malinconia e speranza in tre minuti.

      Tutte mi hanno insegnato che la sincerità non ha bisogno di effetti speciali: basta una buona melodia e una verità da condividere.

      Hai costruito il pezzo partendo da sala prove, su un incastro istintivo di basso, batteria e chitarra. Cosa cambia, oggi, per te, quando torni a suonare “di pancia”?

        Cambia tutto e non cambia niente. Oggi suonare “di pancia” è un ritorno alle radici, ma con più consapevolezza. Non c’è trucco: o c’è l’istinto o non funzioni.

        E quando trovi quell’incastro magico, ti rendi conto che il rock è ancora vivo, e parla la tua lingua, anche dopo anni.

        “Le canzoni inglesi” sembra parlare anche del tempo che passa, dei sogni vissuti con la leggerezza della giovinezza. Qualche settimana fa, hai avuto la possibilità di suonare a Londra per la prima volta. C’è un momento in particolare di quella sera che vuoi raccontarci?

          Sì, quando ho suonato la prima nota e ho visto negli occhi delle persone quel sorriso che riconosco anche nei miei concerti in Italia. Era come se la musica avesse davvero abbattuto le distanze.

          Ho pensato: “Marco, sei a Londra, con la tua chitarra e la tua storia. Goditela tutta.” È stato uno di quei momenti che ti porti dietro per sempre.

          Dopo il successo del libro Salutami tuo fratello, torni alla musica con quasi 100 concerti in un anno: qual è il sogno che oggi continui a inseguire sul palco?

            Il sogno è sempre lo stesso: emozionare. Se una persona torna a casa da un mio concerto con il cuore più leggero o con una canzone che gli gira nella testa, allora ho fatto centro.

            Il palco per me è un luogo sacro, dove posso essere autentico al cento per cento. E ogni volta è come fosse la prima.

            In quasi ogni tua canzone c’è un sorriso sincero, anche quando parli di malinconia. È un marchio di fabbrica o una forma di resistenza alla disillusione?

              È entrambe le cose. È il mio modo di affrontare la vita: con un sorriso che non nega la malinconia, ma la attraversa. Credo che la musica possa farci compagnia anche nei momenti duri, e se riesce a farlo con spensieratezza, ancora meglio. Non è ingenuità, è forza

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