Bruce Springsteen non ha scritto solo canzoni: ha tracciato mappe emotive e sociali per orientarsi nei confini mobili di un’America che cambia, crolla, resiste.
Il Boss ha dato voce agli invisibili e ai dimenticati, ha indossato i pantaloni da lavoro di suo padre diventando working class hero pur non avendo mai messo piede in una fabbrica. Ha messo gli ultimi, i losers, al centro della scena con una forza letteraria pari ai giganti del romanzo come Philip Roth e John Steinbeck.
Ha narrato storie di uomini che corrono in auto ridotte a carcasse verso un sogno che possa liberarli dal nulla, le speranze e le piaghe della sua terra, gli uomini poveri che volevano diventare ricchi, i ricchi che vorrebbero diventare re e questi ultimi che non saranno soddisfatti fino a quando non avranno tutto sotto il loro dominio, i Lonesome Day e la rinascita (The Rising, appunto).
Ecco una serie di brani — più tre bonus track— che delineano un percorso lungo la “Springsteen’s America”, proprio come se fosse una highway che attraverso campi gialloverdi, montagne, badlands e cieli azzurri e notti buie come solo gli Stati Uniti sanno regalare ci porta alla scoperta di un determinato modo di vivere gli States. Perchè nel cuore dell’America che lavora e sanguina, c’è sempre stato un jukebox che suona Bruce Springsteen.
Un’America fatta di sogni perduti, motori accesi, strade su cui correre e occhi pieni di polvere e al tempo stesso di luce.
Springsteen’s America: la playlist
Factory (1978)
Un uomo entra ogni giorno in fabbrica. Ne esce ogni volta un po’ meno vivo, sgretolandosi un pezzo alla volta come una montagna esposta ai quattro venti e al sole rovente.
È il ritratto lirico e brutale del lavoro come alienazione, con un’empatia figlia della sua personalissima storia: Springsteen scrive dando voce alla sofferenza del padre, suo mito e suo più grande nemico al tempo stesso.
“Factory takes his hearing / Factory gives him life”
My Hometown (1984)
Un padre che porta il figlio in auto e gli racconta della città in cui è cresciuto: le lotte razziali, la chiusura delle fabbriche, il degrado che cresce di pari passo con la violenza, l’odore del caffè che non invade più la città, tutte vicende realmente accadute nella Freehold di metà anni ’60. Quello di lui e Kate è un addio sottovoce, quasi sussurrato. L’amore per la propria terra si mescola al disincanto, ma torna potente quando il padre, sul finale, mette il figlio dietro il volante e mostra la sua hometown.
“They’re closing down the textile mill / Across the railroad tracks”
The River (1980)
La storia che ha portato Springsteen a scrivere questa canzone, come ha raccontato in occasione dei No Nukes Concerts del 1979 e del suo one man show a Broadway, vede come protagonisti sorella Virginia, rimasta incinta a 17 anni, e del cognato, un cowboy.
“Then I got Mary pregnant / And man, that was all she wrote”
Youngstown (1995)
è una delle tante città della Rust Belt, cuore d’acciaio dell’America che ha forgiato armi per guerre vinte e poi è stata dimenticata. È il cuore incandescente dell’America industriale tradita. Springsteen racconta, dando voce a un saldatore, la parabola amara di una città dell’Ohio cresciuta con le acciaierie e poi abbandonata dal capitalismo globale, che ha fatto a pezzi intere famiglie dopo averle usate per fabbricare armi e vincere guerre.
Youngstown è il simbolo della working class tradita, lasciata a marcire dopo aver costruito imperi, ma soprattutto è la metafora di come ognuno di noi possa rischiare di perdere tutto ciò che ha ed essere abbandonato al proprio destino.
“Once I made you rich enough / Rich enough to forget my name”
Born in the U.S.A. (1984)
Una delle canzoni più fraintese della storia. Sotto il ritornello esplosivo si nasconde la storia cupa di un reduce del Vietnam che torna in un Paese che non lo vuole più. Tutto nasce dalla lettura di “Nato il 4 luglio”, scritto da Ron Kovic, e dall’incontro con i reduci del Vietnam a Venice Beach organizzato dallo stesso Ron. E quel “Born in the USA” è la rivendicazione dei propri diritti: nonostante tutto, sono nato qui.
“Come back home to the refinery / Hiring man said, ‘Son, if it was up to me’…”
The Ghost of Tom Joad (1995)
La spiritualità di Steinbeck scorre in queste strofe. Tom Joad ritorna come spettro contemporaneo, proprio come dal carcere tornò in cerca della casa paterna imbattendosi nell’ormai ex reverendo Casey, diventando l’incarnazione di tutti gli emarginati che vagano per le highway americane cercando un letto, un lavoro, un domani.
“Wherever there’s somebody fightin’ for a place to stand / For a decent job or a helpin’ hand…”
Atlantic City (1982)
Un uomo e una donna fuggono a sud per cambiare vita, ma il debito li segue ovunque. Atlantic City è il racconto crudo della disperazione americana: non ci sono eroi, solo sopravvissuti che sussurrano promesse impossibili. Il sogno si è rotto, ma la voglia di riscatto resta. Bruce canta in lo-fi, con voce e chitarra nude, taglienti come la sabbia d’inverno su un lungomare deserto. “Everything dies, baby, that’s a fact / But maybe everything that dies someday comes back”: è il mantra disilluso di un’America che ha perso tutto ma ancora spera.
“Everything dies, baby, that’s a fact / But maybe everything that dies someday comes back”
Jungleland
“Jungleland” è l’epopea urbana per eccellenza. È West Side Story scritta con l’inchiostro della working class e suonata con il sudore di E Street. Un giovane suonatore si ribella al proprio destino ma viene schiacciato da un’America che non salva i suoi sognatori. In mezzo ci sono amori fragili, gang disperate, la poesia e la tragedia del vivere. E c’è quel sax di Clarence Clemons, che diventa urlo e preghiera. È la fine di ogni illusione: la città divora i suoi figli e li lascia sull’asfalto, a metà strada tra mito e macerie.
“Outside the street’s on fire in a real death waltz / Between what’s flesh and what’s fantasy…”
Land of Hope and Dreams (1999)
È una benedizione laica, un gospel su rotaie che sfocia nel rock e nel cantautorato. Springsteen capovolge l’immaginario di This Train (il classico gospel) e apre le porte a losers, liars, thieves e sinners. Il treno di Bruce non lascia marcire lungo la linea gialla proprio nessuno, anzi, include. È la promessa americana rivisitata per i dimenticati, un inno collettivo che guarda al futuro con tenacia e fede. Il treno è lo stesso che attraversa The Rising, che raccoglie feriti e sopravvissuti per portarli, forse, verso qualcosa di migliore.
È l’America che Bruce sogna da sempre, e che canta con voce roca e speranza ostinata.
“This train carries saints and sinners / This train carries losers and winners”
The Rising (2002)
È la resurrezione dell’America post-11 settembre, il tentativo di elaborare il lutto trasformando il dolore in speranza. The Rising narra le emozioni di un pompiere che sale le scale delle Torri Gemelle con l’immagine di sua moglie nel cuore e finisce per vedere la Vergine nel giardino, ma è anche il canto di chi è rimasto.
Bruce costruisce un ponte tra il dolore collettivo e la necessità di ricostruzione morale. La sua è una liturgia rock, con richiami al gospel e all’aldilà, che fa di una tragedia l’occasione per ritrovare senso, comunità, redenzione. “Come on up for the rising” è una chiamata rivolta a tutti: rialzarsi, insieme.
Wrecking Ball (2012)
Scritta inizialmente per il demolito Giants Stadium, diventa presto il simbolo di un’intera nazione smantellata dal neoliberismo. Wrecking Ball è Springsteen, cresciuto tra le acciaierie nelle swamps of Jersey some misty years ago, che brandisce la rabbia dei suoi eroi proletari, degli operai licenziati, dei sognatori sfrattati.
“Hold tight to your anger, don’t fall to your fears” e “Come on and take your best shot, let me see what you got” sono il suo manifesto politico: non arrendersi. La palla demolitrice è insieme minaccia e strumento di rinascita.
La canzone si chiude in una danza quasi irlandese, ribelle e fiera, un ultimo atto di resistenza.
American Skin (41 Shots) (2000)
Amadou Diallo muore per 41 colpi esplosi dalla polizia. Springsteen scrive una preghiera laica per ogni giovane nero che non sa se tornerà a casa. È un canto di dolore, ma anche una denuncia politica forte e chiara, che parte da Diallo e giunge fino a George Floyd e il movimento Black Lives Matter. Perchè anche a 25 anni di distanza dall’uscita del pezzo…
“You can get killed just for living in your American skin”
Jesus Was an Only Son (2005, da Devils & Dust)
In questa ballata intensa e quasi mistica, Bruce mette da parte le highway e i motori per toccare il dolore universale di ogni madre e ogni figlio. La figura di Gesù è vista non come simbolo religioso, ma come giovane uomo con una madre che lo ama, e che lo guarda morire.
È un brano che racconta l’America profonda attraverso la compassione, la fede e la perdita. In quel dolore ancestrale c’è l’eco di ogni soldato partito per la guerra, di ogni figlio caduto nei campi o nei sobborghi dimenticati. Springsteen canta sottovoce, come chi sa che certe verità vanno solo sussurrate.
“Now there’s a loss that can never be replaced / A destination that can never be reached…”
Chasin’ Wild Horses (2019, da Western Stars)
Nel cuore di Western Stars c’è il mito del West che si sgretola. Chasin’ Wild Horses è la confessione silenziosa di un uomo che fugge da sé stesso, dalla colpa, dal tempo che non torna. I cavalli selvaggi diventano metafora del rimorso, della giovinezza persa, dei sogni sfumati. È l’America del grande silenzio, delle pianure infinite dove le emozioni restano sospese come polvere nell’aria. Bruce canta con grazia cinematografica, tra orchestrazioni ampie e parole pesanti come pietre. È il crepuscolo del cowboy moderno, e Bruce lo attraversa a cavallo della sua voce.
“I make it all up as I go / Then I pull my saddle down and tie up to a post”
Repo Man (2025, da Somewhere North of Nashville, incluso in Tracks 2)
Uscita a sorpresa, Repo Man è un blues denso, oscuro, figlio bastardo del Nebraska e fratello minore di State Trooper. Bruce torna a calarsi nei panni di un personaggio borderline, un uomo che vive ai margini, che prende ciò che gli è stato tolto o forse ciò che non gli è mai appartenuto, cercando di farsi giustizia da sé e finendo nel torto.
Il repo man — l’esattore, il recuperatore — è metafora vivente di un’America che sequestra sogni, case, automobili e dignità. Springsteen canta con voce ruvida e chitarra minacciosa, come se ci volesse dire che non tutto quello che è perso è dimenticato, ma che chi è stato derubato a volte si riprende il conto con gli interessi.
Bonus Track: Born to Run & Racing in the Street
Born to Run è l’evangelo della fuga, un’esplosione di gioventù e desiderio. Ma non è un’evasione leggera: è un’urgenza. C’è una città che uccide i sogni, e due ragazzi che vogliono bruciarla prima che li bruci.
“Tramps like us, baby we were born to run”
Racing in the Street è il controcanto malinconico: l’auto non è più un’arma per scappare, ma l’unico spazio dove esistere. La vita è passata, l’amore è sfinito, resta solo la corsa notturna. È una delle canzoni più devastanti mai scritte sull’uomo e le sue illusioni.
“Some guys they just give up living / And start dying little by little, piece by piece”
Bonus Track #2 – Chimes of Freedom (1988)
È il 19 luglio 1988. Bruce Springsteen sale sul palco a Berlino Est, davanti a oltre 300.000 persone. Davanti a sé, un popolo sospeso tra due mondi, tra due muri. Springsteen non è lì per intrattenere: è lì per testimoniare. Prima di suonare, pronuncia una frase in tedesco stentato ma potente: “Non sono qui per nessun governo. Sono qui per suonare rock’n’roll per voi, nella speranza che un giorno tutti i muri vengano abbattuti.”
Poi parte Chimes of Freedom. Una preghiera laica e universale. Un omaggio a Dylan, ma anche un’autodefinizione: Bruce canta per gli “abbandonati, gli respinti, i perseguitati e i dimenticati”. È l’America che sogna da sempre, che canta con rabbia e dolcezza. Quell’esecuzione, in quella notte, diventa un frammento di Storia. Pochi mesi dopo, quel muro crollerà davvero.
“Starry-eyed and laughing as I recall when we were caught / Trapped by no track of hours for they hanged suspended…”
Springsteen’s America: il bilancio definitivo
Bruce Springsteen ha raccontato l’America con una voce tremante e tenace. Ha messo in musica le sue contraddizioni, ha dipinto il ritratto struggente di un Paese che non ha mai smesso di credere—anche quando cade, anche quando mente a sé stesso.
E in fondo, ogni volta che ascoltiamo una di queste canzoni, è come se Bruce ci prendesse per mano e ci portasse dentro un altro capitolo del suo romanzo infinito.
Lì, l’America brucia di vita. Ma, soprattutto, sogna ancora.
In “The Rising” canta la resurrezione dopo l’abisso, ma anche la speranza che tiene in piedi un popolo. E forse è proprio con “Chimes of Freedom”, cantata a Berlino Est poco prima che il Muro cadesse, che si può chiudere davvero questa mappa sonora: rintocchi di libertà per i feriti, gli esiliati, i diseredati. Perché la musica di Springsteen è sempre stata questo: un rifugio e una promessa, un’America che ancora può esistere, per chi ha il coraggio di sognarla.