Chi ha assistito ai live di Eric Clapton ad Assago il 27 e il 28 maggio 2025, al Forum di Milano, lo sa: non è stato soltanto un concerto. È stata una confessione. Una preghiera sussurrata tra le corde di una Stratocaster, mentre il tempo si fermava ad ascoltare.

Sono serate che ti ricordano chi sei, da dove vieni, e perché la musica – quella vera – ha ancora senso nel mondo in cui viviamo. Una platea gremita, occhi lucidi e silenzi densi: il ritorno di Slowhand in Italia è stato tutto questo, e qualcosa in più.

Ad accompagnare Slowhand sul palco, una superband composta da Nathan East al basso, Chris Stainton e Paul Carrack alle tastiere, Sonny Emory alla batteria, Doyle Bramhall II alla chitarra e il duo composto da Katie Kissoon e Sharon White ai cori.

Ma adesso è il momento di salire sulla M2 – anzi, la verde, se preferite – e dirigersi idealmente verso Assago. Il live di Eric Clapton sta per cominciare.

Se non ci conoscessimo, sono Corrado Parlati e questo è MentiSommerse.it, un magazine ribelle, un rifugio virtuale dove ti racconto le storie più belle legate al mondo della cultura.

La leggenda prende la scena

Si comincia in piedi, con un boato: White Room, classico intramontabile dei Cream, apre la scaletta come un manifesto d’intenti. Clapton è in forma, i suoni sono puliti, la voce ruvida e presente. Key to the Highway, elegante standard blues, conferma che sarà una serata dominata dal sentimento, dalla misura, dalla sostanza. Una serata di rock blues suonato ai massimi livelli.

Ogni nota di chitarra è un frammento d’anima, ogni assolo è una scheggia di memoria. I’m Your Hoochie Coochie Man sfuma in una jam potente, che culmina nella tanto attesa Sunshine of Your Love: applausi, cori, un Forum che vibra esattamente come le corde di una Strato.

Il cuore acustico di Clapton

Poi il silenzio. Il primo set elettrico giunge al termine, Clapton si accomoda per un set acustico che è il centro emotivo del concerto. Kind Hearted Woman Blues e Nobody Knows You When You’re Down and Out sono due dichiarazioni d’amore al Delta del Mississippi, omaggi delicati a Robert Johnson e Jimmy Cox.

L’atmosfera diventa rarefatta. Can’t Find My Way Home dei Blind Faith arriva con la forza delle cose sincere, seguita da una Tears in Heaven che lascia il pubblico sospeso, con il fiato spezzato. Rispetto alla versione originale, il brano è leggermente più veloce, ma conserva intatta la sua struggente dolcezza. È una delle vette emotive della serata.

Una chitarra, una bandiera, un messaggio

Ed è proprio al termine di Tears in Heaven che Clapton, senza dire nulla, imbraccia una Stratocaster dai colori inequivocabili: rosso, verde e nero. La bandiera palestinese.

Un gesto silenzioso, ma chiarissimo. In un momento storico in cui le parole si rincorrono e si svuotano, Clapton sceglie la musica. Lo aveva già fatto a Lucca nel 2023, suonando Prayer of a Child. Lo rifà qui, lasciando che siano le note – e i colori – a parlare per lui. Una dichiarazione di umanità, non di parte. Un invito alla pace.

Il ritorno dell’elettricità

La seconda parte del set riaccende l’amplificatore e i ricordi. Badge, scritta con George Harrison, ha l’eleganza delle cose che invecchiano bene. Little Queen of Spades e Cross Road Blues sono lampi di genio, con la band in pieno controllo: affiatata, precisa, ispirata. Non è solo un omaggio a colui che, secondo la leggenda, vendette l’anima al diavolo all’incrocio la U.S. Route 61 e la U.S. Route 49 in quel di Clarksdale, ma anche a quel ragazzo timido e solitario cresciuto con i dischi di Muddy Waters e Robert Johnson, consumati sul giradischi della nonna.

Old love e Cocaine sono – al pari di “Sunshine of your love” l’apice strumentale della serata: ogni solo è un viaggio, ogni variazione è un dialogo.

E infine, il bis: Before You Accuse Me, classico di Bo Diddley, chiude il cerchio. Un’ultima lezione di blues, prima di lasciare il palco. Senza proclami, senza show. Solo musica.

Clapton, l’uomo salvato dal blues

Scrivere di Eric Clapton oggi significa andare oltre la leggenda. Non si parla solo di un chitarrista immenso, ma di un uomo che ha trasformato il dolore in bellezza. Un talento cristallino, tormentato da dipendenze, lutti e silenzi. Un artista che ha vissuto sulla linea sottile tra la luce e il baratro, tenuto in vita, sempre, da sei corde e un blues.

Clapton non suona per stupire. Suona per tenere viva una verità fragile, ma ancora necessaria. E quando sul palco dell’ Unipol Forum di Assago le luci si spengono, si ha la sensazione che ogni nota suonata abbia avuto un senso. Che ogni brano eseguito sia stato una forma di riconciliazione con il mondo.

Clapton ha attraversato l’inferno con una Stratocaster come bussola

Spesso l’intensità emotiva di un grande spettacolo si misura nei silenzi, nei respiri trattenuti, nella verità che affiora nei momenti meno attesi. Il concerto di Clapton ad Assago è stato tutto questo. Un evento intimo, pur nella sua grandezza. Un atto di presenza e di resistenza.

In un’epoca in cui i concerti sono spesso show pirotecnici, Eric Clapton ha portato ad Assago un altro linguaggio: quello del blues, della misura, della profondità. Un linguaggio che non ha bisogno di parole per dire l’essenziale.

E forse è proprio per questo che, lasciando il Forum, molti hanno camminato in silenzio. Col cuore pieno. E una canzone – magari Tears in Heaven, magari Sunshine of Your Love – che continuava a suonare, sommessa, dentro di loro.

Eric Clapton non è stato mai davvero Dio. È stato uomo. Ferito, perduto, redento.

Ha attraversato l’inferno con una Stratocaster come bussola.

E oggi, quando suona, non cerca più applausi. Cerca la pace. La stessa che, forse, quel bambino chiamato Conor ascolta da qualche parte. Un blues dolce, lontano, che non ha bisogno di parole. Solo di verità.

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