Esiste una leggenda nordeuropea secondo la quale, se si poggia l’orecchio sul fondo stradale di una città, è possibile percepirne il suono più autentico e viscerale. E, probabilmente, se appoggiassimo l’orecchio sui ciottoli di uno dei vicoli che formano il dedalo di strade e crocicchi napoletani, o sulle mura di tufo dei palazzi a Santa Chiara, percepiremmo in maniera inequivocabile il suono del sax di James Senese.

È stato al fianco di Mario Musella negli Showmen, ha dato vita ai Napoli Centrale, si è detto più volte che è stato per Pino Daniele ciò che per Clarence Clemons è stato per Bruce Springsteen. Insomma, è stato l’uomo che ha segnato in maniera indelebile uno dei tre filoni delle avanguardie musicali napoletane.

Big Man James – anzi, ‘O Jammo, se preferite – torna sulle scene con un disco – “Chest nun è ‘a terra mia” – che riflette sul mondo attuale, senza mai perdere un velo di poesia.

A sei anni dalla chiacchierata nel backstage dell’Arena Flegrea, oggi ho avuto il piacere di ospitare nuovamente James Senese su queste pagine.

Se non ci conoscessimo, sono Corrado Parlati e questo è MentiSommerse.it, un magazine ribelle, un rifugio virtuale dove ti racconto le storie più belle legate al mondo della cultura.

JAMES SENESE PRESENTA IL SUO NUOVO ALBUM

Nel suo nuovo album, “Chest nun è ‘a terra mia”, affronta con lucidità e coraggio il conflitto tra bene e male, tra progresso e disillusione. Quanto è stato difficile – o forse necessario – tradurre in musica una visione così cruda e allo stesso tempo così spirituale del nostro tempo?

C’è qualcosa che, col passare del tempo, mi travolge. È come un’onda che non puoi fermare. Io osservo la realtà, la vivo, la confronto col passato, e ne traggo musica. Analizzo quello che siamo diventati, esploro il presente con la memoria di ciò che eravamo. La vita oggi corre troppo, va veloce in una direzione che spesso non comprendiamo. E il problema è che non ce ne accorgiamo nemmeno più. Il progresso, invece di elevarci, ha finito per anestetizzarci. Abbiamo perso il contatto con le emozioni, con i sentimenti più profondi. La musica per me è un mezzo per denunciare questa perdita, per ricordarci che l’anima non può essere messa da parte. Tradurre tutto questo in musica non è stato solo necessario: è stato urgente.

In una recente dichiarazione ha affermato che la felicità ci sfugge perché non apriamo abbastanza il cuore e gli occhi. Dopo sessant’anni di musica, che significato ha oggi per lei la parola “felicità”?

Per me la felicità non è nemmeno una parola vera. È diventata una sorta di illusione che inseguiamo, ma che non sappiamo nemmeno riconoscere quando ci passa accanto. In realtà, quello che manca è la libertà. È quella la vera felicità: sentirsi liberi dentro, pensare con la propria testa, amare senza condizioni. Ma questa libertà non l’avremo mai, finché non la cercheremo davvero. Non si trova fuori, nei beni materiali o nel successo. Sta nel coraggio di guardarci dentro, di aprire il cuore e gli occhi. Il guaio è che viviamo distratti, fuori dal mondo, come se la nostra anima non contasse più. E allora quella che chiamiamo felicità diventa solo un’altra maschera.

Brani come “Ammiscamm chesta vita” e “Metropolis” mostrano una rara capacità di fondere radici e sperimentazione. Quali sono state le principali fonti di ispirazione per la nascita di questi due pezzi così diversi tra loro, eppure così coerenti nel loro messaggio?

Tutto nasce da un’urgenza interiore: quella di unire il cuore al sentimento, la storia al presente. “Ammiscamm chesta vita” è un grido, un invito a mescolare tutto, a non dividere più ciò che siamo da dove veniamo. È una canzone che affonda nelle mie radici, nella Napoli che vibra di vita vera, ma anche di contraddizioni. “Metropolis”, invece, è uno sguardo verso il futuro, un futuro che può essere anche freddo, meccanico, alienante. Ma in entrambe le canzoni c’è la stessa forza: quella di chi cerca un’umanità autentica. Volevo creare musica che non fosse solo ascolto, ma esperienza. Una musica che ti prende e ti porta in un viaggio dentro te stesso.

Facciamo un salto nel passato: è stato protagonista del concerto “Harlem meets Naples” all’Apollo Theater, incontrando tra gli altri una leggenda come James Brown. C’è un ricordo in particolare di quell’incontro che desidera condividere con noi?

Quello non è stato solo un concerto, è stato un viaggio dell’anima. Io l’ho vissuto come una dichiarazione: “Anche noi siamo qui. Anche noi esistiamo”. Essere all’Apollo Theater, in quel tempio della musica nera, significava dire che le nostre radici partenopee avevano qualcosa da dire, da dare.

E quando ho incontrato James Brown, ho visto un fratello. Un uomo che lottava con la musica, come me. Un predicatore, sì, ma non di religione — di libertà. Lui mi ha trasmesso forza, dignità, determinazione. E io ho capito che, anche se veniamo da mondi diversi, preghiamo nella stessa direzione: verso un’umanità più giusta, verso la verità, verso la libertà. E quella libertà, ancora oggi, è il mio orizzonte.

A James Senese e BigTime va un sentito ringraziamento.

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