“Io della musica non ci ho capito niente”, secondo lavoro in studio di Giulia Mei, è un lavoro che unisce forza emotiva, ricerca sonora e consapevolezza politica.

In questa intervista, l’artista si racconta senza filtri: dalle radici della scrittura alla rabbia lucida di Bandiera, passando per l’infanzia, la famiglia e quel lato oscuro che ognuno di noi si porta dentro.

Un disco attraversato da fantasmi affettuosi e momenti di epifania, che restituisce pienamente il valore della musica come strumento di cura e resistenza.

Per presentare “Io della musica non ci ho capito niente” ho avuto il piacere di scambiare due chiacchiere con lei. Se non ci conoscessimo, sono Corrado Parlati e questo è MentiSommerse.it, un magazine ribelle, un rifugio virtuale dove ti racconto le storie più belle legate al mondo della musica.

“Io della musica non ci ho capito niente” è un viaggio dentro il tuo vissuto, tra crepe, giorni bui e spiragli di luce. Se dovessi racchiudere tutto questo in una sola immagine o parola, quale sarebbe? E perché?

Sarebbe un verbo: divergere.

Divergere significa uscire fuori dai binari soliti, adottare un pensiero creativo che contempli tutte le possibilità, nutrirsi di alternative e accettare l’errore come parte fondamentale del processo creativo.

In “Bandiera” dai voce a una rabbia lucida e potentemente politica, che si muove sul confine tra intimo e collettivo. Ti va di raccontarci com’è nata questa canzone e quanto ti ha messo alla prova, emotivamente e artisticamente, scriverla e pubblicarla?

Nasce dalla voglia di raccontare un disagio, un sentimento di oppressione talmente forte da dover cercare una via per essere espresso.

Con questa canzone ho dato voce prima di tutto a me stessa e a quella voglia di valicare le barriere che ancora oggi, anche subdolamente, vengono imposte alla libertà e autodeterminazione delle donne.

Scriverla è stato liberatorio, e alla fine il percorso che ha fatto mi ha anche dato quel coraggio di affrontare chi questa canzone non l’ha capita e accolta.

Il disco sembra abitato da fantasmi affettuosi: voci del passato, promesse non mantenute, ferite ancora calde. Hai avuto bisogno di attraversare un dolore per scrivere questo album, o è stato il disco, in qualche modo, a farti compagnia durante quel cammino?

Ci sono tanti dolori in questo disco e questa espressione, “attraversare il dolore”, la trovo meravigliosa.

È questo che fa per me la musica e in particolare la musica in questo disco: prendermi per mano in questo viaggio spesso difficile per via della carica emotiva enorme, e portarmi dall’altra parte, quella della consapevolezza, della crescita, dell’elaborazione che a volte ti può salvare dai tuoi demoni.

“Genitori” è uno dei brani più crudi e teneri del disco. Parla del disagio che persiste anche nell’età adulta, di quella bambina che non smette di chiedersi “perché”. In che modo la scrittura ti ha aiutata ad abitare quelle crepe familiari?

La scrittura, per quanto a volte possa essere impulsiva (come è accaduto con questa canzone, nata in una sola notte), in realtà mi aiuta ad analizzare quello che accade attorno a me. In questo senso la scrittura è sempre stata una via di fuga per medicare il mio cuore ferito di bambina e di adulta eternamente bambina.

Questa canzone per me è stata una specie di epifania, arrivata per raccontarmi e aiutarmi a capire cose di me e della mia famiglia che non ho avuto mai la lucidità di raccontarmi.

Lo sguardo verso l’infanzia torna anche in “A casa mi veniva” e “A picciridda mia”, tra suoni delicati e parole piene di nostalgia. Se potessi trovarti oggi davanti alla Giulia Mei bambina, cosa le diresti?

Continua così, esattamente così.

In “Un tu scuiddari”, insieme ad Anna Castiglia, affronti le piccole grandi mostruosità che vivono dentro di noi. Come si fronteggia, secondo la tua esperienza, quel lato oscuro della personalità che ogni essere umano si porta dietro?

Non so se lo si può eliminare del tutto, ma essere consapevoli che fa parte di noi è un primo importante passo. Smettere di accrescere il nostro individualismo a dispetto degli altri, cercare una connessione con loro rendendoci conto che siamo tutti storie della stessa trama, raggi della stessa ruota, che “quando gira, gira bene”.

A Giulia Mei e Teresa Brancia va un sentito ringraziamento.

Corrado Parlati

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