Chi era Adolf prima di diventare Hitler?
Questa è la domanda che Stefano Massini — drammaturgo, narratore e fine analista dei meccanismi del potere — si pone e ci pone nel suo ultimo spettacolo, Mein Kampf, in scena dal 22 al 27 aprile al Teatro Bellini di Napoli.

È un interrogativo che non cerca giustificazioni, ma comprensione. Una lente cruda e disillusa sul prima, su quel terreno fragile e ambiguo dove si forma la mente e si sviluppano le idee che avrebbero poi dato vita all’orrore.

Una scena vuota. Un foglio bianco. Tutto comincia da un libro

Stefano Massini parte dal Bücherverbrennungen, rogo di libri avvenuto la notte del 10 maggio 1933, nel cuore del Mitte, quartiere di Berlino, e dal suo incontro personale con uno degli autori simbolo del Novecento tedesco, costretto a guardare le pagine delle proprie opere farsi cenere e volare sospese nel vento. La scelta di partire dal Bücherverbrennungen non è casuale: il tutto, infatti, nacque proprio da un libro.

Ed è proprio intorno al testo madre, alla genesi nuda e feroce del pensiero hitleriano, che ruota il monologo di Stefano Massini.

Mein Kampf, scritto nel 1924 da un giovane Adolf Hitler durante la prigionia a Landsberg, è un documento che pochi hanno letto ma di cui molti parlano. Massini, dopo anni di studio incrociato tra la prima stesura del libro e i comizi del Führer, ne ricava un materiale drammaturgico incandescente. Non c’è alcun intento di spettacolarizzazione, né concessioni al sensazionalismo.

Si tratta di teatro civile contemporaneo allo stato puro, che lavora sulla parola come detonatore e antidoto.

Il palco è essenziale, spoglio, dominato da una gigantesca pagina bianca. Non una scenografia: un simbolo. Il luogo da cui tutto è iniziato. Perché il nazismo, prima di diventare una macchina bellica, è stato un’idea. E prima ancora, una frustrazione personale, un delirio d’onnipotenza tradotto in parole. Parole stampate, lette, credute.

Stefano Massini — autore e attore — si muove su quel foglio come a voler vivisezionare la storia. La sua performance diventa strumento di espressione e contraddizione. Con cambi di tono repentini, ritmi ora serrati ora dilatati, plasma un monologo febbrile, una partitura fisica e verbale, che ci accompagna nei meandri dell’infanzia e dell’adolescenza in cui ha trovato terreno fertile la rabbia del futuro dittatore.

“Oggi mi appare provvidenziale e fortunata la circostanza che il destino mi abbia assegnato, come luogo di nascita, proprio Braunau sull’Inn. Questa cittadina sorge infatti sulla frontiera dei due Stati tedeschi, la cui riunione sembra, perlomeno a noi giovani, un compito fondamentale, da realizzare a qualunque costo”, si legge nell’incipit del Mein Kampf.

E attraverso la performance di Massini, sembra quasi di muoversi tra le mura della sua casa al civico 15 della Salzburger Vorstadt e vedere Adolf bambino, schiacciato da un padre autoritario. Lo vediamo giovane, solo, canticchiare l’inno tedesco mentre viene respinto dall’Accademia di Belle Arti, povero e affamato nelle pensioni viennesi. È un racconto che non vuole assolvere, ma spiegare. Perché comprendere non significa giustificare, ma conoscere il percorso che ha trasformato un uomo in un incubo.

Il teatro come esercizio di consapevolezza

In Mein Kampf non troverete svastiche, né accenni alla Soluzione Finale. Non perché non siano parte del discorso, ma perché qui il centro è l’origine, il pensiero embrionale. Quel momento in cui la frustrazione personale si trasforma in visione collettiva, in ideologia. Massini ci mostra un Adolf che ancora non è Hitler, ma che lo sta diventando — parola dopo parola.

Ed è proprio in questo processo che lo spettacolo affonda la lama. Perché la vera minaccia, oggi come allora, non sta nei simboli visibili, ma nei meccanismi invisibili che portano le masse a seguire il delirio di un uomo e a farlo proprio. La necessità di un nemico comune contro cui scagliarsi, la volontà di sentirsi dalla parte giusta per assolvere la propria vita da una nullità incombente, la retorica del sacrificio, la narrazione dell’eroe salvifico: tutto ciò risuona con inquietante attualità.

Mein Kampf di Stefano Massini è uno spettacolo necessario, non solo riuscito

Una parola ricorrente, tra i discorsi a fine spettacolo degli spettatori trattenutisi nel foyer del Bellini, è “necessario”. Ed è la definizione più calzante. Perché non ci troviamo di fronte solo a un’ottima prova teatrale — che lo è — ma a un dispositivo culturale, uno spazio di resistenza attiva. In un’epoca dove la memoria storica è spesso piegata, negata o relativizzata, Mein Kampf di Stefano Massini ci restituisce il potere della narrazione consapevole.

Le luci di Manuel Frenda, le scene di Paolo Di Benedetto e gli ambienti sonori curati da Andrea Baggio lavorano in sottrazione, esaltando la centralità del verbo e del gesto. E anche questo è un messaggio: non servono effetti per scuotere, basta dire. Con precisione, con urgenza.

Conoscere per disinnescare

A un secolo dalla pubblicazione di Mein Kampf, e a otto anni dalla sua riedizione critica in Germania, lo spettacolo di Massini si inserisce in un dibattito tuttora vivo: è più pericoloso censurare o comprendere? La sua risposta è netta: solo conoscendo possiamo disinnescare. Solo illuminando le tenebre della psiche possiamo impedirne il ritorno.

Mein Kampf di Stefano Massini è teatro che sfida, che provoca, che educa. È un viaggio disturbante, sì, ma anche profondamente umano. Perché ci ricorda che il Male, prima di diventare sistema, è stato persona. E che ogni persona, anche quella più fragile, può essere il punto di partenza di una storia che non deve più ripetersi.

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