Napoli è l’unica città d’Italia in cui il popolo è rimasto autenticamente sè stesso, simile all’800“. Era la fotografia di Pier Paolo Pasolini, che all’alba degli anni 60′ si incamminò lungo l’Italia, traendone un ritratto di meravigliosa bellezza, brutale realismo e poetica sfrontatezza.

Era un’Italia in cui il soffio della guerra si era spento, il boom economico era alle porte, il ritmo delle città non era ancora incalzante, nè l’aria soffocante.

C’è stato un tempo in cui ogni città aveva un’identità precisa, figlia di una storia magari ricca di svolte improvvise, angoli bui e sghembi. Quella di Napoli rassomiglierebbe alla tavolozza di un pittore: piena di colori disordinati, ma anche sporca, come un arnese di lavoro che resta dietro le quinte e non si mostra al pubblico. Nel corso della storia ha rappresentato il centro nevralgico del potere illuminato di Federico II; svevi, angioini, aragonesi, spagnoli, francesi.

Tutti hanno lasciato tracce, che sono penetrate in fondo inerbando quella identità popolare così particolare, unica, genuina e insopprimibile, che ha affascinato Pasolini ed è stata a lungo oggetto di studi di Roberto De Simone.

Napoli ha avuto un’avanguardia teatrale, ma non ne ha mai avuta una musicale“. ebbe a dire De Simone tanto tempo fa. Perchè l’avanguardia musicale napoletana la creò lui, prima con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, poi attraverso lo studio delle tradizioni popolari del Meridione, mescolando etnomusicologia, teatro e impegno civile in un corpus di opere e scritti che non hanno mai perso la propria forza.

Sin troppo ovvio nominare “La Gatta Cenerentola”, “L’opera buffa del Giovedì Santo” o “La Cantata dei Pastori”. Ma l’agiografia del Maestro sarebbe inutile: le sue opere, il suo immenso contributo, stanno lì, in attesa che qualcuno (come purtroppo avverrà) le dimentichi o le renda simili ad un oggetto imbalsamato.

Roberto De Simone ha raccontato le storie dei contadini, dei pescatori, dei pastori. Storie dimenticate, che sarebbero state perse senza il suo straordinario lavoro: ha praticamente creato da solo una tradizione, riscoprendo da un lato le opere teatrali e sacre dell’antica scuola musicale napoletana, dall’altro i canti delle lavandaie, dei panettieri, dei manovali di porto. I palazzi della borghesia napoletana e i bassi dei vicoli, il belvedere ordinato e illuminato di Posillipo e il caotico andrivieni dei quartieri popolari della città.

La Gatta Cenerentola fu osteggiata, criticata anche da chi aveva lavorato con De Simone: tradizione popolare travestita da intellettualismo, oppure nobiltà culturale involgarita. Da qualunque lato venissero, le critiche non colsero la “sintesi”: la Gatta Cenerentola è il popolo che ambisce a rompere i legami della miseria che lo attanagliano, è Napoli che vuole uscire dai vicoli, dalla miseria che alla fine è diventata l’alibi perfetto per non provare ad essere qualcos’altro.

Quel popolo autentico di cui parlava Pasolini, però, è cambiato. Quello che aveva denunciato Raffaele Viviani durante il Fascismo, quello che denunciò Eduardo De Filippo nel dopoguerra, l’ha raccontato De Simone in epoca moderna. E probabilmente proprio per questo motivo, il Maestro non è mai entrato a far parte del cosiddetto “immaginario popolare”, che si è ormai da tempo appropriato indebitamente dei De Filippo, di Troisi e di Totò. Perché lui aveva fatto in tempo a capire, sulla propria pelle, a cosa sarebbe approdato quello stesso “immaginario”.

Con Roberto De Simone muore Napoli, o quello che ne restava: muore colui che l’ha cantata, l’ha liberata dalle maschere e dalla retorica, che l’ha costretta a specchiarsi senza travestimenti, guardandosi dritta negli occhi. L’anima di una città che ha una storia travagliata come Napoli non può essere candida: trasuda di strade paludose e malfamate, di tradimenti, assassini, re lazzaroni e viziati, di ignoranza e superstizione. De Simone l’ha raccontata a modo suo, lontano da ogni oleografia, riparandosi nella sua mescolanza di sacro e profano, di musica colta e popolare, di villanelle cinquecentesche e musica colta settecentesca.

Il revisionismo culturale che ha travolto Napoli negli ultimi anni è una sorta di calderone infernale in cui sono stati mescolati Totò, Troisi, Eduardo, i neomelodici, i cantautori, i rapper, il neapolitan power dei primi anni ’80, la musica dei centri sociali degli anni ’90. De Simone ne è rimasto fuori, un po’ per scelta, un po’ perché nessuno dei sottoinsiemi del calderone poteva contenerlo. Era troppo grande, era egli stesso un insieme all’interno del quale altri dovevano trovare collocazione.

L’opera di Roberto De Simone verrà probabilmente messa in qualche teca, resterà a prendere la polvere sugli scaffali di qualche appassionato di musica e di teatro, senza alcuna possibilità di arrivare alle generazioni moderne. Perché il popolo napoletano ha perso quella sua anima autentica che aveva fatto innamorare Pasolini, che aveva reso Napoli una città così particolare nella sua ordinarietà. Il benessere è arrivato all’improvviso, calato dall’alto: ma la struttura tribale della società napoletana, è rimasta intatta. Con soldi, telefonini, auto e (spesso) pistole e coltelli in tasca. E con un’atavica fame di denaro, da accumulare, da conquistare a spese degli altri e consumare in un vortice distruttivo e autodistruttivo.

Quello che ha reso Napoli uno squallido teatrino che celebra una sè stessa che non esiste ad ogni angolo, che paga il lavoro poco e male, che lascia spazio al riciclaggio frenetico di denaro che si trasforma in pizzetterie e localini vari. Che specula sugli affitti, che caccia via gli studenti, i lavoratori, gli immigrati. Tra enfasi idiota e acritica, tra l’idolatria vuota di un guscio ormai completamente privo di umanità.

O come scrisse tempo fa De Simone in occasioni del trentennale della morte di Eduardo, “prodotta da una asfittica napoletanità incapace culturalmente di collocarsi nel presente e di valutare nella contemporaneità o nelle proiezioni future quegli elementi atti a superare il sentimentalismo dei tempi trascorsi e inserirsi in un contesto di lucido giudizio”.

La Napoli di oggi somiglia a quella che fu al centro della narrazione eduardiana: in quelle commedie si raccontava della mediocrità, della meschinità, dell’ignoranza superstiziosa, arrogante e profondamente patriarcale della borghesia napoletana del dopoguerra. Corrotta nell’animo, avida, dimentica della solidarietà popolare di cui Napoli un tempo era portatrice. Con Roberto De Simone muore definitivamente Napoli, o quel che ne restava.

Gennaro Acunzo

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