Ci sono album che si trasformano in pietre miliari, non solo per il panorama musicale, ma anche per il viaggio personale e culturale che rappresentano. “Petra Lavica” è uno di questi. Nato alla fine degli anni ’80 dal genio creativo di Pippo Rinaldi, alias Kaballà, è un’opera che intreccia sonorità mediterranee, folk europeo, echi psichedelici e rock internazionale, mantenendo il cuore pulsante nella Sicilia più autentica.

Rimasto per anni un gioiello nascosto, oggi “Petra Lavica” torna a vivere, grazie a una nuova edizione rimasterizzata che conserva intatta l’anima del progetto originale, ma con una veste sonora rinnovata. Una rinascita che porta con sé un bagaglio di storie, incontri e intuizioni: dalla collaborazione con Gianni De Berardinis e Massimo Bubola, fino alla visione innovativa di Foffo Bianchi e Tommaso Bianchi, custodi di un suono analogico che risuona come una carezza dal passato.

Ho scambiato due chiacchiere con Pippo Rinaldi, in arte Kaballà, per ripercorrere le tappe di questa straordinaria avventura artistica, esplorando le sfide di un progetto rivoluzionario che, allora come oggi, osa mescolare dialetto e pop, tradizione e innovazione, identità locale e visione internazionale. Un dialogo che celebra l’universalità della musica e la capacità delle radici di fiorire anche lontano da casa.

Se non ci conoscessimo, sono Corrado Parlati e questo è MentiSommerse.it, un rifugio virtuale dove ti racconto le storie più belle legate al mondo della musica.

Il viaggio musicale di Kaballà

Dopo 33 anni, cosa ti ha spinto a vincere ogni resistenza interiore e riportare alla luce Petra Lavica?

L’incontro con Foffo Bianchi, storico produttore discografico e ingegnere del suono, ha sicuramente sgretolato il muro delle mie ataviche resistenze, la sua autorevolezza nel campo dei suoni e dei dischi, la sua empatia nei miei confronti hanno dissolto parte dei dubbi che mi portavo dentro.

Ma la spallata finale la hanno data gli amici che, per vari motivi, hanno avuto un ruolo importante nella mia vita e mi hanno strappato il definitivo sì.

Paolo Corsi, l’amico di sempre, colui che ha creduto in me sin dal primo momento e che ha supervisionato il progetto, Mario Cianchi, l’amico di questi ultimi anni di musica, che con la sua energia lo ha coordinato. E non poteva mancare l’amico di mille avventure artistiche, da Catania con furore, Nuccio La Ferlita che ne ha curato la produzione esecutiva.

La rimasterizzazione di Petra Lavica è stata affidata a Tommaso Bianchi, con la supervisione di Foffo Bianchi. Quali dettagli del suono originale volevi preservare assolutamente e quali hai deciso di aggiornare?

Intanto mi sono affidato alla loro esperienza specialmente per quello che riguardava il suono rigorosamente analogico per cui Foffo è considerato un maestro e non a caso Tommy ne è figlio e discepolo. Le registrazioni dell’epoca sono state rispettate usando reverberi che non le snaturassero, il remastering ha reso i suoni più brillanti ma cercando sempre di mantenere il calore originale ed evidenziando le timbriche di alcuni strumenti che hanno ritrovato luce come il restauro rispettoso dei colori originali di un antico e prezioso quadro.

Nella supervisione del lavoro di rimasterizzazione, qual è stato il momento più emozionante, quello in cui hai sentito che Petra Lavica stava riprendendo vita con la stessa anima di allora?

Sicuramente, quando ho ascoltato per la prima volta il brano omonimo, che è quello a me più caro ed è l’inizio di questa lunga e affascinante storia, lo sentivo ritornare alla luce dopo 33 anni. Una vera rinascita!

Petra Lavica è stato definito “un viaggio musicale dove Milano dialoga con Catania passando da Algeri per arrivare a Dublino”. Come sei riuscito a mescolare influenze così diverse mantenendo l’identità siciliana al centro del progetto?

Petra Lavica è stato tutto “un miracolo” di equilibri, merito di un team straordinario, a cominciare dai produttori Bubola e De Berardinis per passare dal coordinatore musicale Lucio ”violino” Fabbri fino agli straordinari musicisti che ci hanno suonato e ai discografici ed editori “illuminati” che ci hanno creduto fino in fondo. Poi ci sono io che ho rimescolato e amalgamato questi ingredienti di prima qualità usando il sentimento e la cultura della mia terra, il suo “dialetto vivo e parlato” e cercando di recuperare le radici antiche senza perdere la modernità nei suoni e nel linguaggio cantato.

Ricordi quali furono, all’epoca, le principali fonti d’ispirazione, musicali e non solo, che ti guidarono in questo viaggio tra culture apparentemente così distanti?

Come ho scritto nella breve storia della nascita del disco, più di una furono le intuizioni e i motivi ispiratori: la musica che girava intorno, detta allora World Music, che aveva come riferimento in Europa Peter Gabriel e in Italia “Creuza de Ma” di De André e Mauro Pagani, contaminazioni di Rock, Folk mediterraneo e nord Europeo, musica d’autore internazionale e italiana, echi esotici mediorientali e una spruzzata di psichedelia.

A questa miscellanea musicale aggiungerei gli echi di natura letteraria siciliana e non che hanno caratterizzato i miei testi in dialetto anche nei successivi lavori.

Se potessi scegliere una scena, un momento o una sensazione di quegli anni, quale immagine cattura meglio lo spirito con cui hai creato Petra Lavica?

Il momento in cui con le nostre due chitarre in un terrazzo davanti il mare di Catania io e Gianni De Berardinis abbiamo cominciato ad accennare alla melodia di Petra Lavica stabilendo poco dopo che sarebbe stata una canzone che avrebbe dovuto avere un testo in dialetto siciliano. La mia vaga sensazione che improvvisando confuse parole in dialetto si stesse sanando la “frattura sentimentale” che da anni mi faceva avere con la mia terra un rapporto difficile e controverso. Quelle parole confuse diventarono, sull’aereo che mi riportava a Milano, il testo perfetto e definitivo del brano e la sensazione, questa volta precisa, che la frattura si fosse sanata.

L’avventura di “Petra Lavica” partì dal primo incontro con Gianni De Berardinis, con cui hai condiviso la stessa visione di musica, e con Massimo Bubola, che si appassionò subito al progetto e che inventò il tuo nome d’arte. Vuoi raccontarci com’è andato il tuo primo incontro con loro e qual è il più grande insegnamento che conservi da quella esperienza?

L’avventura di Petra Lavica incominciò qualche anno dopo l’incontro con Gianni alla fine degli anni 80, lui aveva un brillante passato da conduttore musicale televisivo approdato con successo all’amore della sua vita, la radio. Aveva anche una profonda cultura musicale, un grande talento chitarristico (il bellissimo “solo” strumentale di Petra Lavica è opera sua) e una dimensione creativa più nascosta che non aveva potuto esprimere a pieno.

Il nostro incontro fu fulminante: condividevamo la stessa visione della musica di cui fin da ragazzi ci eravamo nutriti voracemente, nella nostra quotidiana frequentazione prestavamo orecchio e attenzione a tutte le novità della musica italiana e internazionale, ne subivamo il fascino e ne traevamo stimoli, scrivevamo e sperimentavamo. Quello con Massimo avvenne, invece, qualche anno dopo quando il brano Petra Lavica era già stato composto e provinato, una audiocassetta che Gianni dopo una sua intervista in radio fece sentire a Massimo fu galeotta.

Massimo si entusiasmò all’idea di quel particolare tipo di progetto e da lì incominciò la nostra collaborazione. Quella straordinaria e forse irripetibile esperienza mi ha insegnato che i progetti che si condividono sono sì molto faticosi, perché si incontrano e si scontrano personalità diverse, ma sono anche i più intensi e fertili dal punto di vista creativo e, perché no, spesso anche molto divertenti. Nella mia carriera artistica ne ho fatto tesoro e la prova ne sono le mie innumerevoli collaborazioni con tanti altri artisti di generi e arti diverse.

All’epoca della sua uscita, Petra Lavica era un progetto rivoluzionario, cantato in siciliano e con un sound internazionale. Credi che oggi ci sia il coraggio di osare come allora nel mescolare dialetto e pop, o il panorama musicale italiano si è appiattito su schemi più sicuri?

Sì, noi eravamo molto attenti a quel che succedeva all’estero con il folk anglo/irlandese contaminato dal rock delle chitarre elettriche dal drumming delle batterie e dai bassi pulsanti o al particolare suono di certe band americane che si ascoltavano allora. A completare tutto l’uso del dialetto siciliano mischiato all’italiano che era la lingua parlata da noi giovani siciliani di allora. Certo fu un azzardo che sicuramente aprì le porte alla musica world in Italia ma forse era un po’ troppo presto per vincere le diffidenze degli ascoltatori che forse avevano ancora troppe remore verso il loro stesso dialetto usato su musiche “diverse”.

Ritengo che oggi il panorama musicale si è certamente appiattito su schemi più sicuri e nonostante alcuni nobili tentativi di portare i dialetti su canali più “mainstream” pare che la cosa accada solo per quel che riguarda il dialetto napoletano che, però, ha una lunghissima storia tutta sua che trascende dall’uso tout court del dialetto e che per diversi motivi storici, che sarebbe lungo enumerare, ha avuto cittadinanza nazionale o addirittura mondiale.

La storia della musica napoletana con il suo dialetto e addirittura con una scala musicale propria ha influenzato anche in maniera importante la canzone italiana, molti artisti di caratura internazionale italiani e stranieri hanno cantato in napoletano facendo conoscere il patrimonio della canzone partenopea nel mondo.

E il fenomeno continua tutt’oggi non solo per quello che riguarda le canzoni classiche ma anche per quello che riguarda le nuove forme di canzone che passa dal jazz/blues di Pino Daniele alla trap di Geolier. Per gli altri dialetti penso che bisognerà aspettare ancora un po’ di tempo e non riesco a prevederne i risultati. Ma dai tempi lontani di Petra Lavica tanti esperimenti e tanti passi avanti sono stati fatti e, a mio parere, tanti se ne possono fare ancora perché l’uso del dialetto ha un campo molto aperto dove c’è ancora molto spazio per sperimentare.

A Francesco Di Mento va un sentito ringraziamento

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