La Napoli raccontata da Elena Ferrante è una città che non si limita a fare da sfondo alle vicende dei suoi personaggi: è un’entità viva, pulsante, capace di plasmare i destini di chi la abita. Nei romanzi della Ferrante, Napoli si presenta come un personaggio a sé stante, con una duplice anima: maschile e femminile, materna e distruttiva, accogliente e respingente. È un luogo in cui l’energia creativa si intreccia con la violenza, dove il dialetto risuona come un richiamo ancestrale che lega i protagonisti alle loro radici, anche quando cercano di liberarsene.

La Ferrante non indulge nella celebrazione della città come culla di bellezza o cultura, ma la ritrae nella sua complessità. Napoli diventa il ventre materno da cui ci si deve emancipare per trovare la propria identità, ma da cui non si può mai davvero sfuggire. Per Lenù e Lila, protagoniste della tetralogia L’’Amica Geniale, il rione è una gabbia e, al tempo stesso, un luogo di formazione. È il teatro di amicizie intense, ma anche di rivalità, sopraffazioni e sogni infranti.

La Camorra: il sovrano oscuro

Uno degli elementi più originali del ritratto di Napoli che emerge dai romanzi è la rappresentazione della Camorra. Non c’è romanticismo, né la mitizzazione dei “bravi ragazzi” che domina certa narrativa o cinematografia. Qui, la criminalità organizzata è una forza totalizzante, che esercita il controllo su ogni aspetto della vita quotidiana, talvolta anche silenziosamente . È un sovrano spietato che domina il rione, rendendolo un microcosmo soffocante, dove tutti – uomini, donne, bambini – sono schiavi. Lo sono i fratelli di Elena, finiti a lavorare per i Solara, e il padre di Carmela Peluso, che nel retro del bar perde tutto ciò che guadagna scommettendo ogni centesimo che gli entra in tasca, Rino e Gennarino, finiti nel giro dell’eroina.

Questa presenza oscura si riflette nei legami familiari, spesso corrosi dalla violenza. La Ferrante ci mostra come la Camorra distrugga non solo il tessuto sociale, ma anche la famiglia di ogni abitante. Mariti e padri tirannici, madri spezzate, figli cresciuti troppo in fretta, tutto si consuma sotto il peso di un potere che distrugge senza lasciare vie di fuga.

Napoli: la città specchio di Elena Ferrante

Napoli, per la Ferrante, non è solo un luogo, ma una metafora. È il riflesso di un’identità complessa, che si nutre di contrasti. Per Lenù, che cerca di sfuggire al quartiere abbracciando la possibilità di studiare e una vita da scrittrice, Napoli resta una presenza costante, un legame viscerale che si riattiva ogni volta che torna ad avere contatto con esso.

Per Lila, invece, Napoli è l’arena in cui resistere e, a tratti, soccombere. Lei, che se avesse potuto, avrebbe cancellato ogni traccia e sarebbe scomparsa e che sognava per l’amica una vita migliore.

La lingua napoletana diventa simbolo di questo rapporto viscerale con la città. Parlare italiano è per Lenù una conquista, ma il dialetto è l’essenza di ciò che è stata e che forse non potrà mai completamente abbandonare. Come la città stessa, il dialetto è memoria e destino, un ponte tra passato e futuro. La violenza del rione emerge tutta attraverso il linguaggio di Lila, capace di ferire con una singola parola.

Oltre la bellezza, l’inquietudine

Nella Napoli della Ferrante, i vicoli non sono pittoreschi, ma claustrofobici, oscuri, teatro di segreti inconfessabili e sopraffazioni più o meno velate. La città non viene mai raccontata con le tonalità rassicuranti di una guida turistica. È un luogo di possibilità straordinarie, ma anche di paralisi. È il mondo in cui si dipanano le esistenze di Lenù e Lila, le cui vite rappresentano due percorsi opposti: quello di chi riesce a emergere, e quello di chi resta imprigionato. Ed è il luogo a cui tutti tornano, perché restano uomini e donne del rione, che nascono e muoiono, anche se studiano e cercano di scappare via.

In questo senso, Napoli è più di un semplice teatro delle vicende: è vera co-protagonista. È una città che vive nel continuo alternarsi di bellezza e abisso, che accoglie e respinge, che illumina e oscura.

È un personaggio che, come le opere della Ferrante, resta dentro chi lo incontra, portandolo a riflettere sul proprio rapporto con le origini, la memoria e il destino.

In una lettera a Mario Martone, regista del film “L’amore molesto”, contenuta nel volume “La frantumaglia”, scritta nel 1995 e mai inviata, emerge l’inquietudine che Napoli suscita nel cuore della scrittrice:

“Dallo schermo, subito, mi è arrivata direttamente addosso l’inquietudine che mi ha sempre causato Napoli, i suoi suoni, le sue parole. I personaggi del mio racconto sono ridiventati quasi tutti persone vive, corpi in movimento su sfondi notissimi, individui spesso miracolosamente somiglianti agli abitanti della mia memoria. Ho visto per la prima volta con chiarezza quale storia inquieta avevo raccontato. E mi sono molto turbata, ho faticato a non ritrarmi. Lì per lì non sono riuscita a capire cosa era veramente accaduto al mio libro, come era potuto succedere che io che avevo scritto la storia riuscissi a vederla solo adesso, esposta fino alle sue estreme conseguenze. Evidentemente, pur dicendomelo spesso, non avevo messo in conto che se il regista è molto bravo come è molto bravo lei, tutto ciò che sulla pagina è travestito o inventato per far funzionare il racconto, sullo schermo diventa emotivamente irrilevante, quasi non si vede; mentre il nucleo vivo che anima ogni cosa si svela con una dirompenza insostenibile.”

Napoli: una città con cui i conti non sono mai chiusi

Il rapporto di Elena Ferrante con la sua città emerge tutto in una lettera a Goffredo Fofi, sempre contenuta nel volume “La frantumaglia”, di cui vi riporto un breve estratto

“Con Napoli, comunque, i conti non sono mai chiusi, anche a distanza. Sono vissuta non per breve tempo in altri luoghi, ma questa città non è un luogo qualsiasi, è un prolungamento del corpo, è una matrice della percezione, è il termine di paragone di ogni esperienza. Tutto ciò che per me è stato durevolmente significativo ha Napoli per scenario e suona nel suo dialetto.

Questa enfasi però è recente ed è il frutto di rivisitazioni da lontano. La città in cui sono cresciuta l’ho vissuta a lungo come un posto in cui mi sentivo continuamente a rischio. Era una città di litigi improvvisi, di mazzate, di lacrime facili, di piccoli conflitti che finivano in bestemmie, oscenità irriferibili e fratture insanabili, di affetti così esibiti da diventare insopportabilmente falsi. La mia Napoli è la Napoli “volgare” di gente “sistemata” ma ancora terrorizzata dalla necessità di tornare a doversi buscare la giornata con lavoretti precari, pomposamente onesta ma, nei fatti, pronta a piccole nefandezze per non sfigurare, chiassosa, di voce alta, sbruffona, laurina ma anche, per certe ramificazioni, stalinista, affogata nel dialetto più angoloso, sboccata e sensuale, senza ancora il decoro piccolo-borghese ma con la pulsione a darsene almeno i segni superficiali, perbene e potenzialmente criminale, pronta a immolarsi all’occasione, o alla necessità, di non dimostrarsi più fessi degli altri.

Mi sono sentita diversa da questa Napoli, l’ho vissuta con repulsione, sono scappata via appena ho potuto, me la sono portata dietro come sintesi, un surrogato per tenere sempre a mente che la potenza della vita è lesa, umiliata da modalità ingiuste dell’esistenza. Da molto tempo, però, la guardo al microscopio. Isolo frammenti, ci scendo dentro, scopro cose buone che da ragazza non vedevo e altre che mi appaiono ancora più miserabili di allora. Ma neanche per queste provo più il vecchio astio”

Napoli: un luogo che plasma i suoi abitanti

La Napoli di Elena Ferrante non è un semplice sfondo né un elemento decorativo. È un luogo che plasma, al tempo stesso ferisce e nutre. È una città che si insinua nelle vite dei suoi protagonisti, così come fa il Sebeto nei suoi sotterranei, con una forza irresistibile, come una matrice che definisce l’identità e il destino. Attraverso la sua rappresentazione, Ferrante ci offre non solo un ritratto profondo di una città, ma una riflessione universale sui legami viscerali con le proprie origini: quei legami che, pur generando sofferenza e inquietudine, ci definiscono e continuano a influenzarci, anche a distanza.

Napoli, con i suoi contrasti, diventa il simbolo di una lotta costante tra radicamento e fuga, tra appartenenza e ribellione. Ed è proprio in questa tensione che risiede la sua forza narrativa. Le vite di Lenù e Lila, i conflitti familiari e sociali, la violenza e l’energia creativa: tutto trova una sintesi nella città che, come un grande romanzo, non smette mai di raccontare e interrogare chi la vive.

La Ferrante restituisce a Napoli la complessità che merita, offrendoci non una celebrazione, ma un’esplorazione emotiva e intellettuale. Chi legge i suoi romanzi non incontra solo una città, ma un’entità viva, che respira e parla, e che lascia un’impronta indelebile, proprio come la letteratura più grande sa fare.

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