Un amore contrastato, che riesce ad abbattere ogni muro.
Anche quel muro, che sarebbe caduto solo dodici anni dopo l’uscita del disco (datata 14 ottobre 1977) e che ha fatto ombra all’incontro dei due amanti protagonisti della storia.
Certo, che posto strano quello scelto dai due amanti per darsi appuntamento, ma questa è un’altra storia.
Oggi, infatti, analizzeremo l’influenza che Berlino, e in particolare il muro che la divideva in due, ha avuto sugli artisti. Storie d’amore, di canzoni, di rinascite, tutte rigorosamente vissute standing by the wall.
Se non ci conoscessimo, sono Corrado Parlati e questo è MentiSommerse.it, un rifugio virtuale dove ti racconto le storie più belle legate al mondo della musica.
Storie d’amore e di musica ai tempi del Muro di Berlino
Il concerto di Bowie al Reichstag del 1987
La Berlino del muro non era solo uno sfondo drammatico, ma un vero e proprio catalizzatore per artisti in cerca di ispirazione e di una nuova prospettiva creativa. Tra questi, uno dei momenti più iconici è stato il concerto di David Bowie al Reichstag nel 1987, un evento che ha trasformato la musica in un atto di ribellione condivisa.
In occasione dell’esibizione nei pressi del Reichstag, nel 1987, il Duca Bianco fece direzionare una parte degli amplificatori verso est.
Dall’altra parte, infatti, c’erano migliaia di persone che non erano riuscite ad attraversare il confine, ricevendo un trattamento tutt’altro che gentile da parte delle forze dell’ordine.
La polizia di frontiera disperse la folla con lacrimogeni, e quelle scene vennero in seguito definite da Bild come “un passaggio decisivo” per creare il clima favorevole all’unificazione, che due anni dopo avrebbe portato all’abbattimento del muro.
“Non lo dimenticherò mai. Fu una delle performance più emozionanti della mia vita. Ero in lacrime. Avevano appoggiato il palco al muro stesso, così che il muro fungeva da nostro fondale.
Ci era giunto all’orecchio che gli abitanti di Berlino Est avrebbero potuto sentire lo spettacolo, ma non sapevamo in quanti fossero. E ce n’erano migliaia dall’altra parte, radunati vicino al muro. Fu come fare un doppio concerto.
Potevamo sentire le persone dall’altra parte cantare e applaudire. Dio, persino ora questo ricordo mi toglie il respiro, mi spezza il cuore. Non avevo mai fatto nulla di simile in vita mia, e credo non mi ricapiterà. Quando eseguimmo “Heroes”… la canzone sembrò davvero un inno, quasi una preghiera. Per quanto possiamo suonarla bene oggi, non sarà mai paragonabile alla versione di quella notte, perché allora aveva tutto un altro significato. Quella è la città in cui è stata scritta, e quella è la particolare situazione che l’ha ispirata”, raccontò David in un’intervista.
È in quel momento, probabilmente, che Heroes assume un significato nuovo. La canzone, in realtà, aveva un mood tutt’altro che ottimistico. “L’unico atto eroico di cui puoi essere protagonista in un contesto come quello è continuare a vivere, ricavando gioia dal semplice fatto di essere ancora vivo, nonostante tutti i tentativi di distruggerti.”, spiegò David Bowie in un’intervista.
E se vi state chiedendo che luogo assurdo abbiano scelto i due innamorati per darsi appuntamento, non sono solo loro i protagonisti a cui il muro ha fatto da sfondo.
Lucio Dalla, il Checkpoint Charlie e Futura
Nel 1979, Lucio Dalla stava completando l’album che avrebbe chiuso la splendida trilogia iniziata con Com’è profondo il mare e Lucio Dalla.
Una gestazione complessa, segnata dalla violenza e dalla voglia di rinascita, di tornare a condividere, di smettere di avere paura.
Per cercare ispirazione, Lucio si reca in quella Berlino non più così distante dalla Via Emilia. Ad un certo punto, al termine di un concerto, arriva l’illuminazione: ferma un taxi giallo, tipicamente berlinese.
Direzione? Il Checkpoint Charlie, punto di passaggio tra la Germania Est e Ovest, unico collegamento tra due mondi così vicini eppure così lontani.
Chiede al tassista di aspettarlo, si siede su una panchina di fronte al checkpoint, accende una sigaretta e inizia a scrivere delle parole su un taccuino che aveva con sé.
Nasce così, come una sceneggiatura che diventa canzone, la storia di due amanti che vincono la paura del futuro. Berlino non è mai citata direttamente, ma pervade ogni nota, accompagnando i due innamorati – uno di Berlino Est, l’altro di Berlino Ovest – che decidono di mettere al mondo una figlia e chiamarla Futura.
In quel periodo, Berlino era destinazione perfetta per la fuga di ogni artista. Leggenda vuole che proprio quella sera, da un altro taxi, scese Phil Collins. Si fermò immobile davanti al Checkpoint, sigaretta immancabile tra le labbra, proprio come Dalla.
Non ci fu alcuna interazione diretta tra loro, era una notte di fine anni ’70, quando si credeva che la musica potesse, in qualche modo, cambiare il mondo, o almeno renderlo migliore. Un po’ come il protagonista della prossima storia.
Il periodo Berlinese di Nick Cave
Mentre Dalla creava una narrazione intessuta di speranza e futuro, per altri artisti Berlino rappresentava un luogo oscuro, di isolamento e ricerca interiore. È il caso di Nick Cave, che negli anni ’80 ha trovato rifugio nella Berlino Ovest, scoprendo in quella città divisa una fonte inesauribile di ispirazione.
Nel 1982, in fuga dai suoi demoni e da un’Australia che ormai gli stava stretta, Nick Cave si trasferì a Berlino Ovest, attratto dall’energia artistica e dalla decadenza della città divisa. Qui trovò un terreno fertile per la sua creatività, immerso nell’ambiente punk e underground di Kreuzberg, un quartiere segnato dalle influenze del Muro. Berlino rappresentava per Cave una terra di nessuno, una dimensione oscura ma vitale, in cui l’isolamento fisico e politico della città rispecchiava la sua ricerca di un rifugio personale.
Fu in questo periodo che nacquero album fondamentali come The Firstborn Is Dead (1985) e Your Funeral… My Trial (1986), influenzati dalla sensazione di oppressione e dal contrasto tra il caos anarchico di Berlino Ovest e il rigore della Germania Est.
L’influenza della “trilogia berlinese” di David Bowie (composta dagli album Low, Heroes e Lodger) si fece sentire anche su Cave: come Bowie, si immerse in un ambiente sonoro sperimentale, alimentato dalla collaborazione con musicisti locali e dall’energia della città divisa.
Per Cave, Berlino non era solo un rifugio creativo, ma anche un luogo di trasformazione personale. “Era una città fantasma che viveva nel limbo tra est e ovest,” raccontò anni dopo in un’intervista. “Sentivi il peso del Muro ovunque andassi. Quella sensazione di essere intrappolato, di non poterti muovere liberamente, era ipnotica e allo stesso tempo ispiratrice.”
Il Boss a Berlino Est e i Sandow che diedero vita a Born in the GDR
“Un pomeriggio a Berlino, io e Steve decidemmo di varcare il Checkpoint Charlie. Alla frontiera della Germania Est, le guardie confiscavano giornali, riviste e ogni pubblicazione.
Era una società diversa: sentivi il controllo, l’oppressione era tangibile. Steve ne rimase segnato a vita. Dopo il tour europeo, l’uomo che aveva proclamato che rock e politica non dovevano mescolarsi si trasformò in un attivista impegnato.
La potenza di un muro che spaccava il mondo in due era un insulto all’umanità, aveva un che di pornografico: dopo averlo visto, non riuscivi più a liberarti di quella sensazione”, racconta Bruce Springsteen nella sua autobiografia “Born to run”.
Questa esperienza segnò profondamente Little Steven, che inserì nel suo secondo disco da solista un brano intitolato Checkpoint Charlie.
A est del muro, il Boss ci tornò nel 1988 per un concerto epocale davanti a oltre 160mila persone. Come sia stato possibile solo sette anni dopo il rifiuto della DDR del 1981, è presto detto: la federazione dei giovani comunisti di Berlino presentò l’evento come un benefit per i sandinisti.
“Non sono venuto qui per cantare contro o a favore di alcun governo, ma solo per suonarvi rock’n’roll, sperando che un giorno tutte le barriere possano essere abbattute”, spiegò il Boss dal palco.
Quella notte, il rock’n’roll di Springsteen non si fermò al muro. Tra coloro che assistettero al concerto, anche se solo in televisione, c’era Kai-Uwe Kohlschmidt, frontman della di una band punk fondata a Cottbus.
I Sandow, chi erano costoro?
Ispirato dall’esperienza e dal potente messaggio di “Born in the U.S.A.”, il giorno seguente Kohlschmidt entrò in studio con i Sandow per registrare in appena un’ora “Born in the G.D.R.”, un brano che sfidava ironicamente il patriottismo e la retorica di regime della DDR. Il testo faceva riferimento al coro unanime dei fan che cantavano il ritornello della canzone di Springsteen, un gesto che metteva in luce la mancanza di un analogo senso di orgoglio nazionale tra i giovani dell’Est. La canzone includeva inoltre riferimenti sottili alla politica della DDR, come l’affermazione di Kurt Hager contro le riforme di Gorbaciov: “Noi costruiamo, non tappezziamo,” e una critica alla propaganda ufficiale rappresentata dall’elogio alla pattinatrice Katarina Witt.
Il brano divenne immediatamente popolare e fu trasmesso dall’emittente giovanile DT64, ma la sua uscita ufficiale su disco fu ritardata fino al febbraio 1989, pochi mesi prima della caduta del Muro di Berlino. Dopo la Wende (la svolta politica del 1989), “Born in the G.D.R.” acquisì una nuova rilevanza, venendo percepita da molti come un simbolo del sentimento di perdita e alienazione provato da una parte della popolazione della Germania Est, che si sentiva “colonizzata” dopo l’unificazione.
Come ricordò Kai-Uwe Kohlschmidt in seguito, il successo del brano era dovuto non solo alla sua melodia accattivante ma anche alla sua critica sottile e pungente: non era un’espressione di orgoglio nazionale, bensì un’affermazione identitaria che richiedeva cambiamento e sfidava l’immobilismo della DDR. Ancora oggi, “Born in the G.D.R.” è considerata una testimonianza importante dello spirito di ribellione dei giovani dell’Est e della potenza della musica come forma di resistenza culturale.
Klaus Renft Combo: il rock ai tempi della DDR
Se i Sandow rappresentano la reazione giovanile alla censura della DDR, il Klaus Renft Combo è la prova che la resistenza musicale a Berlino Est aveva radici ancora più profonde.
Nella Berlino Est degli anni Ottanta la musica rock non era solo una forma di intrattenimento. Tra le band più iconiche di quel periodo spicca il Klaus Renft Combo, un gruppo che incarnava il desiderio di libertà e di ribellione. Fondato da Klaus Jentzsch, che adottò il cognome da nubile della madre, la band divenne presto un simbolo della controcultura giovanile. La loro musica, che mescolava blues, rock e influenze beat, era un grido di protesta che sfidava apertamente le rigide restrizioni del Partito socialista unificato.
Nel 1976, tuttavia, il governo della DDR ritirò definitivamente il permesso al Klaus Renft Combo di esibirsi, accusando i testi delle loro canzoni di “pessimismo decadente”. Questo non fermò Klaus Renft, che decise di lasciare Berlino Est, mentre la sua musica diventava sempre più popolare tra i giovani dell’Est, circolando in copie pirata e cassette registrate clandestinamente. La loro canzone “Wer die Rose ehrt” (Chi onora le rose) divenne una sorta di inno ribelle contro l’oppressione.
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Renft scoprì solo dopo la caduta del Muro quanto la sua band fosse diventata leggendaria: i loro dischi costavano più di quelli dei Pink Floyd e venivano considerati tesori nascosti dai collezionisti. Per molti giovani cresciuti nella DDR, le canzoni del Klaus Renft Combo rappresentavano una finestra su un mondo diverso, dove l’espressione libera e la creatività non erano soggette alla censura di Stato. Come dichiarò lo stesso Renft in un’intervista anni dopo: “La nostra musica era proibita, ma non poteva essere fermata. Era la nostra piccola rivoluzione.”
La storia del Klaus Renft Combo è un capitolo significativo nella storia del rock della Germania dell’Est, dimostrando come, anche sotto un regime oppressivo, l’arte possa trovare modi sottili e potenti di resistere
E parlando di live epocali a Berlino, è impossibile non citare Roger Waters nel 1990.
Alcuni anni prima, Waters aveva escluso categoricamente una nuova esecuzione di The Wall, a meno che… quel muro non fosse stato abbattuto.
Dopo la caduta del muro, iniziarono le trattative. Quale occasione migliore per riportare on stage quella magnifica opera rock?
Il risultato fu uno show colossale alla Potsdamer Platz, con special guest e trasmesso in diretta in 52 paesi. Non fu un live perfetto a causa di una serie infinita di problemi tecnici e qualche dissidio inevitabile viste le tante star coinvolte, ma sintetizzava al meglio il sentimento di quel periodo.
Ogni performance, ogni artista e ogni canzone hanno contribuito a creare un mosaico di storie che Berlino ha saputo accogliere e trasformare. Le barriere fisiche e ideologiche sono state abbattute non solo dagli eventi storici, ma anche dalla forza collettiva di chi ha scelto la musica come linguaggio universale di resistenza e speranza.
Queste storie di musica, arte, resistenza, hanno tutte un messaggio di fondo comune: i muri, a prescindere da quale possa essere la loro natura, vengono abbattuti prima di tutto attraverso la forza dell’amore e della philia che unisce tra loro le persone. Come disse Bowie in quella notte epica a Berlino: ‘Possiamo essere eroi, solo per un giorno’.
E quel giorno, il mondo sembrava stesse per cambiare davvero.