Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare.

Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità. La stessa cosa fanno nel deserto i Tuareg o nella savana i Beja (o fanno anche, da secoli, gli zingari): è un rifiuto, sorto dal cuore della collettività (si sa anche di suicidi collettivi di mandrie di animali); una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare. Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente; ma anche una profonda consolazione, perchè questo rifiuto, questa negazione alla storia, è giusto, è sacrosanto.

La vecchia tribù dei napoletani, nei suoi vichi, nelle sue piazzette nere o rosa, continua come se nulla fosse successo a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a gridare, a sfottere; nel frattempo, e per trasferimenti imposti in altri quartieri (per esempio il quartiere Traiano) e per il diffondersi di un certo irrisorio benessere (era fatale!), tale tribù sta diventando altra. Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati).

I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili”.

Pier Paolo Pasolini, maestro dell’anticonformismo e della critica al potere, descrisse Napoli come una “grande tribù” resistente, paragonandola ai popoli nomadi che abitano i deserti e le savane. La sua percezione della città partenopea, espressa all’inizio degli anni Settanta, è radicata in un contesto storico e culturale particolarmente rilevante: è il periodo in cui realizza Il Decameron (1971), una pellicola che celebra la cultura popolare, le storie e le tradizioni del Sud Italia. È un’Italia alle prese con il boom economico e l’affermarsi di una nuova modernità, ma anche con un profondo senso di spaesamento, e Pasolini, visitando Napoli, trova qui una comunità che sembra sospesa in una dimensione atemporale, resistente a qualsiasi forma di trasformazione imposta.

In queste riflessioni, rilasciate durante i lavori per Il Decameron, Pasolini tratteggia una Napoli che si oppone al cambiamento. La descrive come una “tribù” che rifiuta il nuovo potere, ossia la modernità, e il mondo globalizzato che stava omogeneizzando le culture. Questo “rifiuto”, come lo definisce, si manifesta in una sorta di autodeterminazione collettiva, una scelta inconsapevole e viscerale di restare autentici, pur sapendo che tale autenticità porta all’estinzione della propria identità originaria.

La “tribù” di Napoli e il rifiuto della storia

Gli anni Settanta segnano un periodo di forte trasformazione urbana per Napoli. La città si espande, con nuove aree residenziali come il quartiere Traiano, simbolo di un modello di sviluppo edilizio che inizia a erodere i legami sociali e a spingere fuori dai quartieri storici parte della popolazione. A questa modernizzazione forzata, Pasolini contrappone il tessuto storico della Napoli autentica: vicoli, piazzette e gesti quotidiani che conservano una resistenza culturale, una sorta di “sacralità” antistorica.

Una delle cartoline più rappresentative di quella Napoli e delle trasformazioni a cui stava andando incontro è stata realizzata da un giovanotto di Santa Chiara che, proprio in quel periodo, stava iniziando a scrivere le sue prime canzoni, che finiranno nel suo primo disco, un vero e proprio concept album in cui i mille colori della città si mescolano alla satira sulla Napoli dei palazzinari e delle istituzioni e all’aria che odora di bagnato e mura fradice. Il disco è “Terra mia”, la voce, inevitabilmente, è quella di Pino Daniele, ma questa è un’altra storia.

Il riferimento a una “tribù” non è casuale. Pasolini vede nel popolo napoletano una comunità che vive secondo codici, riti e atteggiamenti arcaici, come i nomadi Tuareg o i Beja. Tuttavia, ciò che rende Napoli unica è la sua posizione all’interno di una città europea e moderna, in contrasto con il contesto dei deserti o delle savane. Per Pasolini, i napoletani mantengono un’identità profonda, fondata su un rifiuto radicale della modernità e del “nuovo potere”. È una lotta senza tempo, che esprime una resistenza non violenta ma radicale, una sorta di ribellione silenziosa che, nel suo prolungarsi, porta con sé una “profonda malinconia” e allo stesso tempo una “profonde consolazione”.

L’eco di una cultura popolare nel Pasolini de “Il Decameron”

Nella produzione de Il Decameron, Pasolini si immerge completamente nella cultura napoletana, scegliendo come ambientazione per molte scene proprio il capoluogo partenopeo e le sue tradizioni popolari. La scelta non è solo estetica, ma rappresenta un atto politico e poetico: Pasolini celebra le storie di Boccaccio come esempi di vitalità popolare, un’energia gioiosa e indipendente che resiste all’omologazione. Come riportato da Gian Carlo Ferretti in “Pier Paolo Pasolini e il suo tempo” (1978), Pasolini vede nella Napoli degli anni Settanta un baluardo di un’italianità perduta, quella che non è stata inghiottita dal consumismo e dall’industrializzazione. Il suo Decamerone, girato in un italiano colorito e contaminato, rifiuta l’artificio del linguaggio cinematografico standard per celebrare la vivacità e la spontaneità della cultura meridionale.

Napoli oggi: resistenza culturale o dissoluzione?

Le parole di Pasolini risuonano ancora oggi, ma ci troviamo di fronte a un paesaggio urbano e culturale che sembra aver perso in parte quella forza primigenia che lui definiva “irriducibile”. Le librerie, i negozi di dischi e le botteghe artigianali, che un tempo incarnavano il “genius loci” napoletano, stanno gradualmente scomparendo, sostituiti da locali omologati e standardizzati. E mentre la Napoli descritta da Pasolini viveva ancora in una sorta di “ghetto”, protetta dal suo stesso isolamento, oggi la città è esposta alle influenze globali e turistiche che rischiano di cancellare proprio ciò che rendeva Napoli unica.

Ed è qui che emerge una domanda cruciale: Cosa resta della Napoli descritta da Pasolini? Una Napoli che non solo viveva, ma proteggeva la propria identità come una scelta collettiva, quasi una forma di autodifesa culturale. Le tradizioni, i rituali e i “gesti” che Pasolini osservava nei vicoli, nei mercati e nelle piazze, esistono ancora, ma appaiono come echi di un passato che si fa sempre più distante.

Resta ancora una forma di resistenza culturale, tra gli spritz, le pizzefritte e i tributi a Maradona? La risposta è complessa e sfumata, come la stessa Napoli, in un’era in cui il mondo sembra assomigliare sempre più a un enorme Starbucks, in cui tutti, vestiti allo stesso modo, ascoltando la stessa musica e leggendo lo stesso contenuto sullo smartphone, sorseggiano lo stesso caffè e le differenze si appiattiscono a livello socioculturale e crescono sotto il punto di vista economico.

Forse il vero quesito non è se Napoli resisterà alla modernità, ma come la città saprà convivere con le sue trasformazioni, senza perdere l’“essenza irriducibile” di cui Pasolini era tanto innamorato.

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