«Così cantava Partenope, che provava un dolore dolce
La sua voce era una freccia che colpì il mio cuore.»

In principio fu una Sirena, Partenope, appunto, letteralmente “colei che assomiglia a una Vergine, che si lasciò morire tra Scilla e Cariddi.

Il suo corpo venne trascinato dalle onde fino alle sponde del fiume Sebeto, dove poco dopo i cumani avrebbero fondato Neapolis, la città nuova.

C’è chi dice che ciò avvenne perché la sirena non riuscì ad ammaliare con il suo canto Ulisse, di ritorno a Itaca. Secondo un’altra versione, invece, a scatenare la collera della sirena fu Orfeo, che la sconfisse in una gara di canto.

Tutto, dunque, partì da un’armoniosa e forse solo in apparenza irresistibile melodia, ma soprattutto da una delusione.

Probabilmente, in quel momento, Partenope a quel terreno ha donato la sua anima, tanto bella quanto dannata, oltre che il proprio corpo. È come se il suo sangue continuasse a scorrere, da sempre, nel sotterraneo Sebethos arrivando fino ai giorni nostri.

Non molto lontana dalla sua omonima è Parthenope – interpretata da Celeste Dalla Porta e, per la sua versione adulta, Stefania Sandrelli – che abbraccia la vita nelle acque poco a largo di Palazzo Donn’Anna. Un’anima “triste e frivola, determinata e svogliata”, attraverso cui Paolo Sorrentino riesce a rendere omaggio alla sua città raccontandone ogni aspetto, partendo dal richiamo al mito della fondazione, per lavorare sui margini e scendere fin giù nel ventre di Neapolis.

Ci si perde e ci si ritrova, anche grazie all’incontro con persone che, negli anni, hanno imparato a “vedere”, come il Prof. Marotta portato sul grande schermo da Silvio Orlando, capace di tirare fuori il lato più intimo di una Parthenope che sembrava essersi persa. Greta Cool, attraverso la voce di Luisa Ranieri, dà sfogo al dolore dei figli di una città che spesso finisce per ridursi a controfigura di sé stessa.

Peppe Lanzetta veste i panni di Tesorone, vescovo demoniaco a cui presta la sua recitazione più fisica e profonda, intrisa di una poesia a tratti noir, figlia di un bronx minore.

Il regista, attraverso i suoi personaggi, si fa osservatore delle sue stesse radici, proponendo una narrazione che sembra un’autopsia poetica della sua città: il fascino dell’ossessione, del lutto e del desiderio che non si esaurisce mai, il negarsi alle pretese del più potente, il sesso che torna a far scorrere il sangue affrontato con pudore e trasgressione allo stesso tempo.

È un film di ossessione, Parthenope, che mostra quanto Paolo Sorrentino sia un fine antropologo capace di affrontare il suo personaggio liberandosi da ogni giudizio, e di ossessioni, come quella per la sua città e per il Napoli fresco di terzo scudetto durante le riprese.

Un film di bellezza pura, intrisa di un velo di tristezza e malinconia, perché forse è vero che non si può essere felici nel posto più bello del mondo. Ma è anche un film d’amore, perché la differenza è tutta lì, tra l’amare troppo e l’amare troppo poco.

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