La Route 66, la “Mother Road”, è ben più di un tracciato stradale: è un vero e proprio emblema dell’anima americana, un cammino che attraversa non solo migliaia di chilometri ma anche l’identità stessa di un paese, diventando il più lungo museo a cielo aperto del mondo.

Da oltre un secolo, questa storica highway ha catturato l’immaginazione di viaggiatori, scrittori, e artisti, diventando simbolo di libertà e speranza, ma anche di perdita e resilienza.

Franco Zefferi, blogger e appassionato viaggiatore, ha percorso la Route 66 per cinque volte negli ultimi dieci anni, raccontando nel suo blog storie di vita ordinaria che rendono straordinaria la strada.

Attraverso le sue parole, scopriamo una Route 66 diversa da quella dei film e delle canzoni: una terra fatta di persone genuine, piccole comunità che resistono al tempo e alla modernità, e ricordi che affiorano ad ogni curva. Un cammino interiore, che ti riporta al contatto interumano in un periodo in cui, spesso, non si conoscono nemmeno i propri dirimpettai.

In questa intervista, Franco condivide con noi la sua visione della “Strada Madre”, offrendo una prospettiva unica su di essa.

Com’è andata questa volta? Scopriamolo insieme. Se non ci conoscessimo, sono Corrado Parlati e questo è MentiSommerse.it. Un rifugio virtuale, dove ti racconto le storie più belle provenienti da ogni angolo del mondo.

LA ROUTE 66 RACCONTATA DA FRANCO ZEFFERI

La Route 66 è definita “The Mother Road”, un simbolo dell’America più profonda e autentica. Quali elementi della sua storia ti hanno affascinato di più e com’è nata l’idea di raccontarla tramite il tuo blog?

La Route 66 racconta un’infinità di storie, ogni curva del suo bellissimo percorso ne custodisce una.
Sono storie semplici, storie di vita quotidiana. Mi ha affascinato proprio questo, la sua semplicità.

La mia generazione è cresciuta con i film americani, attraverso i quali gli USA venivano raccontati con enfasi.
Quando ti imbatti nella Route 66 sei disorientato perché la strada è un microcosmo all’interno di un contesto più grande che sembra esserle del tutto estraneo.

La Route 66 è tipicamente americana nella sua concezione, nel suo sviluppo e perfino nella sua fine, ma si distacca dal paese che la ospita proprio perchè è fatta di storie semplici ed è popolata da gente che cerca costantemente di reinventarsi per non morire. È gente genuina, orgogliosa del proprio passato e cerca sempre di coinvolgerti per raccontartelo.

A differenza del resto degli USA costantemente votato al futuro, la Route 66 è ancorata al suo passato.
Ed è questo è l’aspetto che più mi ha coinvolto, il contrasto tra la modernissima America, fatta di strade grandi, di grattacieli, di ostentazione dello status di potenza mondiale, e la piccola, “indifesa”, anacronistica Route 66. La Route 66 è un piccolo grande paese lungo 4000Km.

Il gestore di un motel storico lungo la Route 66 una volta mi chiese quale sarebbe stata la mia tappa successiva ed in quale motel avrei dormito. Quando gliel’ho detto (sarebbe stato a 300Km di distanza da dove si trova il suo motel) mi chiese di salutargli i gestori che lui conosceva bene e mi disse: “Sai, la Route 66 è una grande famiglia, ci conosciamo tutti”.

In tempi in cui non si conoscono neanche i vicini di casa sono cose che colpiscono ed alla fine ti senti parte di quella famiglia, ti senti a casa anche tu.

E poi c’è stato Furore di Steinbeck ed il racconto del Dust Bowl (le terribili tempeste di sabbia che si sono abbattute negli anni 30 negli stati delle grandi pianure), un evento che ha coinvolto la Route 66. È in questo contesto che lo scrittore definì la Route 66 “the Mother Road”, la Strada Madre che conduceva i disperati in fuga dai loro luoghi di origine verso la California considerata la terra delle opportunità.

Lungo la strada ci sono ancora tantissimi cimeli che raccontano questa grande migrazione. L’idea di raccontare la Route 66 nel mio blog è nata dalla necessità di condividere le sue storie perché nella loro semplicità mi sono sempre sembrate straordinariamente coinvolgenti.

C’è spesso una visione distorta di quella strada, una visione che tende ad enfatizzare esclusivamente l’aspetto ludico, non considerando quasi per niente la storia del suo percorso e delle comunità che attraversa. Se dici a qualcuno che hai percorso la Route 66 la prima domanda che ti viene fatta è se l’hai percorsa in moto, come se chi non fosse un motociclista (ed io non lo sono) non possa percorrerla e godere di quello che ha da offrire.

Ho quindi voluto mettere in evidenza le storie della Route 66 e della sua gente, il popolo della Mother Road che è il vero protagonista di un viaggio lungo il suo tracciato. Incontrare, ad esempio, persone come Angel Delgadillo (un anziano barbiere di Seligman in Arizona, colui che ha salvato la Route 66) è stata una delle più belle esperienze che ho vissuto nei miei viaggi. Una persona di 97 anni, intervistata da TV e giornali (anche Giacobbo lo ha intervistato un paio di volte per i suoi programmi) che ti trasmette serenità, gioia, che con il sorriso ti racconta la sua difficile esperienza negli anni bui dell’abbandono della Route 66 e la riuscita nel suo obiettivo di farla rinascere anche se in una forma diversa.

Che si arrivi da lui in moto, in macchina, a piedi o in bici è del tutto ininfluente. Lui è la Route 66 più di chiunque altro. Spesso è la scarsa conoscenza e gli stereotipi che ci sono intorno alla strada che fanno si che molti la riducano ad un mero viaggio da un inizio ad una fine, dove in mezzo ci sono solo tanti scudetti sull’asfalto sui quali farsi dei selfies o la associno al senso di libertà che si prova percorrendola ma che non è esclusiva prerogativa della Route 66 ma è comune a tante altre strade negli USA.

Hai percorso la Mother Road cinque volte negli ultimi dieci anni. Vuoi raccontarci come andò la prima volta?

La prima volta con la Route 66 fu un incontro inconsapevole. Era il 1996 in viaggio di nozze e mi dovevo spostare in macchina da Las Vegas a Los Angeles. Percorsi il tratto californiano della Route 66 attraversando Barstow e le altre cittadine che si incontrano prima di LA.

Conoscevo la Route 66 solo di nome ma non sapevo nulla della sua storia. Per me era una strada come un’altra. Diversi anni dopo percorsi altri tratti tra Arizona e California e la curiosità mi spinse a cercare di capire cosa rendesse quella strada così famosa.

Il primo viaggio sull’intero percorso della Route 66 arrivò nel 2014 (ne parla qui sul suo blog, ndr) ed è stato molto più coinvolgente di quanto mi aspettassi. Ricordo che giunto al termine di quel viaggio, sul pontile di Santa Monica, pensai che quella non poteva essere l’unica volta che l’avrei percorsa.

E così è stato. Sono stato 11 volte negli USA ed a parte quelle nelle quali la Route 66 era il motivo del mio di viaggio, ho sempre cercato di includerne un pezzo. Conosco diverse persone lungo la strada e quando la percorro cerco di incontrarle tutte. Per me quello sulla Route 66 è diventato molto più di un semplice viaggio on the road.

Com’è evoluta, nel corso degli anni, la tua visione della Route 66?

Ho amato tantissimo la Route 66, la amo ancora e la amerò sempre. Ci tornerò fra 2 anni in occasione del suo centenario e non vedo l’ora. Ma quando ami qualcosa (o qualcuno) sei poco incline a vederne i difetti o tendi a giustificarli. La Route 66 sta cambiando e con lei anche la mia visione della strada.

Ci sono cose che faccio fatica ad accettare, anche se tutto sommato fanno parte del DNA di quella strada e degli americani in genere. La mia paura è che venga sempre di più vista come un’opportunità di business piuttosto che una strada storica da preservare.

Vengono spesso demolite costruzioni storiche per far spazio a locali che di storia ovviamente non ne hanno ma cercano di crearsela dando l’illusione al viaggiatore che arrivino dal passato.

Vedere ad esempio il Texas Longhorn Motel & Cafe di Glenrio, un posto storico in una ghost town genuina come non ce ne sono più molte negli USA, in parte demolito per far posto ad una costruzione moderna è stata una violenza gratuita che mi ha ferito.

Glenrio, tra l’altro,è una delle testimonianze del Dust Bowl di cui parlavo prima. Ma del resto gran parte delle costruzioni lungo la Route 66 sono proprietà di privati che ne possono ovviamente disporre come vogliono.

Spesso vengono vendute a persone che vivono lontane dalla Route 66 e questo a mio parere è molto pericoloso per la conservazione della sua storia.

E poi ci sono diverse figure storiche della Mother Road che ci stanno lasciando e non sono sicuro che chi le sostituirà avrà la stessa passione. La mia visione quindi si è evoluta, dall’amore cieco, incondizionato, ad un amore consapevole e critico. Ma in definitiva non posso che accettarne il cambiamento, probabilmente è l’unico modo che ha per sopravvivere.

Secondo te, cosa rappresenta il viaggio lungo la Route 66 in particolare? È una fuga, una ricerca, una scoperta di sé o qualcos’altro?

È un po’ tutto quello che dici. È la scoperta di un passato, che seppur non ci sia appartenuto, una volta che lo hai conosciuto finisci per sentirlo tuo.

Per me è una fuga verso qualcosa di familiare, così diverso dal caotico contesto della città in cui vivo. La Route 66 è piena di amicizie consolidate e di altre che aspettano di nascere. Un viaggio lungo la vecchia highway ti costringe a rallentare il ritmo della tua vita, a guardarti intorno, e mentre lo fai ti accorgi di essere circondato da amici che ancora non conosci, da gente che sa chi sei perché magari ha visto i tuoi post su Facebook.

E poi finisci sempre per scoprire qualcosa di nuovo di te che non conoscevi. Mia moglie, le prime volte che la percorrevamo, diceva che quando eravamo sulla Route sembravo una persona diversa. Credo avesse ragione.

route 66 itinerario

I LUOGHI PIU’ ICONICI E LE STORIE DELLA MOTHER ROAD

Molti luoghi lungo la Route 66 hanno visto nascere miti e leggende americane, dal sogno del West alle icone della cultura pop. Ci sono posti che, per te, rappresentano meglio di altri lo spirito di questa strada?

Generalmente sono i posti meno “turistici” a raccontare meglio cosa sia stata la Route 66 nel suo passato ed a trasmetterne lo spirito.

Il tratto in Oklahoma, quello che amo di più, è il cuore pulsante della Route 66, un concentrato di passione e di storie commoventi.

L’Oklahoma è una delle ragioni per le quali la strada è nata (collegare uno stato per sua natura rurale e povero a due grandi città come Chicago e Los Angeles era uno degli scopi di Cyrus Avery, il padre della Route 66). Mi viene in mente anche Tucumcari in New Mexico, una cittadina che adoro (ci sono stato sei volte).

Ad un primo disattento sguardo Tucumcari non ha nulla che possa attrarre un viaggiatore che magari ha della Route 66 un’idea diversa. Ma in quella piccola comunità è raccolta tutta la storia della Mother Road, dalla sua nascita, ai suoi anni d’oro fino alla sua dismissione.

Nuove costruzioni convivono con quelle storiche spesso abbandonate, strutture quest’ultime che raccontano cosa ha rappresentato la Route 66 negli anni in cui era la Main Street of America, e cosa ha significato la sua dismissione.
Tucumcari è la sintesi della storia della Route 66.

E poi direi Seligman in Arizona, la cittadina di Angel Delgadillo, “The Guardian Angel of Route 66”, un uomo, come dicevo prima,ormai quasi centenario che ha letteralmente salvato la “sua” strada dall’oblio.

L’ho incontrato 3 volte e parlare con lui è sempre stato rigenerante, ti racconta della sua sofferenza negli anni bui dell’abbandono della Route 66 con il suo perenne sorriso, un sorriso fiero di chi non ha mai mollato e che sa di aver contribuito in maniera determinante a cambiare le sorti della sua strada, della sua città ed anche della sua vita. Seligman è come un turista immagina sia tutta la Route 66 e questo è forse fuorviante, perché è bizzarra, colorata e sopra le righe, ed invece la strada non è tutta così.

Ma tutto questo è stato necessario.

Angel Delgadillo racconta che quando fu aperta la I40 e Seligman venne tagliata fuori dal traffico automobilistico, sulla nuova Interstate non c’era nessuna indicazione della sua esistenza.

Considera che Seligman era giornalmente attraversata da circa 9.000 automobili, con l’apertura della I40 in quella zona la Route 66 non la percorreva più nessuno. La città era di fatto stata condannata ad una morte lenta e dolorosa. Seligman, grazie a Delgadillo, si è reinventata per non morire ed è quindi diventata il simbolo della resilienza di questa strada storica.

Lo spirito della Route 66 lo puoi comunque trovare nelle persone che vivono e lavorano lungo il suo percorso, soprattutto in quelle che per età hanno tanto da raccontarti.

Se dovessi invece scegliere i tre luoghi che ti hanno emozionato maggiormente in questi cinque viaggi, quali sarebbero e perché?

Tucumcari in New Mexico, di cui ho parlato prima, perché secondo me racconta la Route 66 meglio di qualsiasi altra cittadina. Perché ospita quello che secondo me è il motel storico più bello dell’intero percorso, il Blue Swallow Motel, un monumento della Route 66.

La Lucille’s service Station di Lucille Hamons a Hydro in Oklahoma, perché è un luogo meraviglioso nella sua semplicità. Era la stazione di servizio della “Mother of the Mother Road”, una donna che per la sua infinita umanità negli anni della grande depressione e del Dust Bowl si era guadagnata questo nickname.

Non è la più bella stazione di servizio storica della Route 66, ma è quella che ogni volta mi regala le emozioni più intense.

E poi il Roy’s Cafè di Amboy in California. Anche se con gli anni si è molto addolcito, rappresenta ancora il lato duro della Route 66. È collocato in mezzo al nulla del deserto del Mojave e dopo diverse ore di viaggio veder spuntare all’orizzonte la sua iconica insegna è sempre emozionante. Il Roy’s è stato teatro di tantissimi video musicali e di film (The Hitcher è uno dei più famosi).

route 66 viaggio

La Route 66 è anche un simbolo del cambiamento, del passaggio dall’America rurale all’era moderna. Pensi che ci siano parallelismi tra questo cambiamento e le trasformazioni sociali e culturali che hai osservato?

La tua domanda mi ha fatto tornare in mente una frase di uno scrittore che metteva in evidenza proprio l’aspetto che descrivi.

La Route 66 è contatto fisico tra persone in tempi in cui ci si parla solo virtualmente. Ci costringe a tornare ad abitudini ormai perse.

Ma anche la Route, come dicevo, sta cambiando ed il cambiamento è comunque dettato dal periodo nel quale viviamo. È sempre più difficile sopravvivere lungo una strada che non per tutti rappresenta l’obiettivo di un viaggio negli USA. Una strada che in molti suoi tratti vive esclusivamente di turismo.

Il turismo di massa predilige i parchi dell’ovest, le grandi città e poi magari prima di tornare a casa ne percorre un piccolo tratto. Quindi cambiare, trasformarsi, diventa essenziale. La recente pandemia ha lasciato profonde cicatrici in diversi locali storici ed alcuni di loro, purtroppo, non ce l’hanno fatta.

I motels storici cominciano a trovarsi anche su Booking, cosa che fino a qualche anno fa era impensabile. Un motel storico è qualcosa di molto diverso da una qualsiasi altra struttura commerciale. Quindi snaturando un po’ la propria essenza, anche i locali storici cominciano ad usare le nuove tecnologie. È difficile valutare l’impatto della modernità su molte cittadine della Route 66, le quali dalla dismissione della vecchia highway hanno cominciato a svuotarsi, complice anche la concentrazione dell’economia del paese nelle grandi città.

Non è inusuale, infatti, imbattersi in piccole comunità quasi del tutto scomparse, dove restano pochi coraggiosi che cercano di evidenziarne l’appartenenza alla vecchia highway. Ho paura che il futuro della Route 66 sarà esclusivamente commerciale, viverci alle condizioni imposte dagli anni che stiamo vivendo non sarà facile.

Ma cerchiamo di essere positivi, Michael Wallis, uno scrittore che amo, uno dei cantori più illuminati della Route 66 (ha peraltro prestato la voce allo sceriffo di Radiator Springs di Cars Motori Ruggenti nella versione originale) ha scritto: “La storia della Route 66 è sia dolce che amara. La vecchia highway è piena di cicatrici, molte di cui vergognarsi altre di cui andare fieri, ma ha comunque un futuro luminoso. La Route 66 è una storia infinita, un work in progress. E lo sarà sempre!”

Dopo aver compiuto questo viaggio virtuale guidato da Franco, non mi resta che ringraziarlo e tornare a percorrere la mia, di strada. In attesa, ovviamente, di percorrere la Mother Road.

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