La storia dei Pink Floyd dalla Londra Underground al mito di Dark Side Of The Moon e The Wall [INTERVISTA]
Si tratta di un manuale che ripercorre nel dettaglio la storia dietro ogni canzone pubblicata dal gruppo composto da Roger Waters, David Gilmour, Richard Wright e Nick Mason, partendo dai primi vagiti psichedelici con Syd Barrett fino al successo planetario di Dark side of the Moon, Wish you where here e The Wall.
Per presentare il libro e ripercorrere la storia dei Pink Floyd, ho scambiato due chiacchiere con Nino Gatti e Stefano Girolami del collettivo The Lunatics.
PINK FLOYD – IL FIUME INFINITO
Ripercorrendo il fiume infinito della produzione floydiana, quali sono state le fasi che ti hanno maggiormente impressionato, nella stesura del libro?
“Sono state numerose, inevitabilmente. Ogni snodo dell’intricata vicenda Floyd si contraddistingue per fascino e complessità; dovendo fare la tara, però, direi che il biennio ’68-‘69 è fra quelli più densi e laboriosi. È una fase di mutazione progressiva, consumata a morsi, che fa i conti da un lato con la graduale messa a fuoco di un’identità artistica e musicale, e dall’altro con le dure criticità del momento.
Prendi il ’68, ad esempio: quando Gilmour entra nei ranghi la band è al palo. Invischiata nelle pastoie della difficile separazione con Syd, sembra aver dilapidato in pochi mesi tutti i benefici acquisiti durante lo sfolgorante esordio della prima metà del ’67. Le nebbie sono fitte e ripartire è davvero affare complicato: conti in rosso, ansie martellanti, i fuochi incrociati della critica che li aspetta al varco, i rimpasti manageriali di scuderia e un nuovo musicista da integrare. Con l’aggravante della necessità immediata di riagganciarsi al circuito concertistico e di proporre musica inedita senza l’apporto del vero motore artistico del primo periodo. Sono proprio le ristrettezze del momento a obbligare tripli salti mortali e nuove semine, a partire dalla ridefinizione dei ruoli. La mietitura richiederà del tempo, ma la grande rincorsa alle stelle muove i suoi primi passi proprio ora. Cosa impressiona? I Floyd sembrano non dormire mai.
Fra progetti sul tavolino, registrazioni in studio e centinaia di concerti (alcuni pure in situazioni improbabili, della serie “prendi i soldi e scappa”) la band ha un’ansia di futuro che aiuta a tenere in piedi la baracca. Il ’69, in questo senso, lascia a bocca aperta: la colonna sonora di More, Ummagumma, la laboriosa tournée di The Man & The Journey, il progetto appena abbozzato di Rollo, la collaborazione con Antonioni per Zabriskie Point. Con le antenne dritte su tutte le nuove frontiere tecnologiche (vedi il diabolico Azimuth Co-Ordinator) e una cura maniacale dei dettagli. Un calendario da togliere il respiro; giorno dopo giorno, a prendersi il domani con le unghie”.
– In un’intervista rilasciata da Gilmour, riportata nel libro, si legge “Se consideriamo A Saucerful Of Secrets, Atom Heart Mother e Echoes, notiamo che tutti conducono in maniera piuttosto logica a The Dark Side Of The Moon”. Questa prima parte della produzione floydiana, però, spesso rimane nell’ombra. Se dovessi scegliere un brano da ognuno di questi tre dischi per aiutare i lettori a comprenderli meglio, quali selezioneresti e perché?
“Gilmour allude a tre suite che rappresentano una sorta di evoluzione concatenata. Nello stile, nel processo di concepimento musicale, nelle intenzioni. Tutti brani propedeutici al confezionamento di quel “Pink Floyd Sound” che sarebbe poi tracimato nei grandi successi degli anni ’70. A Saucerful Of Secrets (anno ’68) è stato il primo, concreto, esempio di Floyd “2.0” dopo l’uscita di Syd. Contrariamente ai desiderata del produttore discografico Norman Smith (il quale chiedeva canzoni spendibili sul mercato) il gruppo si stringe intorno a un’intrecciata idea musicale che va in direzione contraria. Roba lunga e sperimentale, che procede a stanze, per lunghi tratti cacofonica e avanguardista.
L’eredità di questa prima suite, unita alle prime tentazioni concept già esplorate nella tournée di The Man e all’intera produzione musicale del periodo (More e Ummagumma), confluisce nell’album che avrebbe portato il gruppo sul tetto del Regno Unito: Atom Heart Mother (1970). L’omonimo brano (ma anche canzoni come If, Summer ’68 e Fat Old Sun) mette a frutto anni di simbiosi artistica con un sound e una filosofia di fondo che si stanno plasmando in modo sempre più riconoscibile; in questo caso però la complicata vestizione sinfonica mescola un po’ le carte e da qui nasce la necessità di ricompattarsi intorno a una matrice più veritiera e personale.
Echoes (da Meddle, 1971), in questo senso, è il gradino successivo: ripulita da tentazioni sinfoniche, rappresenta una sorta di rampa di lancio. Lo è in prima istanza per l’evidente maturazione musicale: Gilmour ha ormai liberato il manico marchiando il suono del gruppo in modo inconfondibile e Waters sta definitivamente sbocciando come autore, incanalando l’inquieta massa lavica che gli scorre sottopelle.
La frase degli sconosciuti che incrociano i loro sguardi per strada è un ponte ideale alle grandi tematiche esistenziali (come l’empatia fra le persone) presenti sui solchi futuri. Wright è in pieno fulgore artistico, in una fase dove agisce da colonna portante. E Mason è un sapiente gestore degli spazi in musica, un portatore sano di sostanza e magia evocativa. I passi successivi? Obscured By Clouds (’72), la colonna sonora dove appaiono i primi diteggi al sintetizzatore e infine The Dark Side Of The Moon (’73), il lavoro in cui tutte le tessere precedenti, musicali e concettuali, si incastonano in un mosaico perfetto”.
– A cinquant’anni dalla sua uscita, quali sono i messaggi e le riflessioni che “The dark side of the Moon” e canzoni come “Breathe” e “Us and them” portano con sé?
“L’insieme delle pressioni che gravano sull’individuo contemporaneo, con specifici riferimenti alle pieghe oscure della vita in ottica occidentale: l’alienazione e l’individualismo, la pazzia e la violenza, la spasmodica smania di arrivare al successo, l’incapacità di provare empatia verso il prossimo e il ripudio della guerra.
Ma anche la sfioritura giovanile, l’ossessione del tempo che passa, gli influssi ambigui della religione e la paura di morire; il tutto dominato dalla radice di tutti i mali, cioè il denaro. Dark Side affronta temi esistenziali ad ampio raggio e nonostante i suoi cinquant’anni, non ha perso un solo millimetro di carica emotiva. Anzi, visti gli inquietanti tempi odierni, appare più che mai attuale”.
– In “Brain damage” è impossibile non intravedere la vicenda di Syd Barrett, così come nell’intero “Wish you were here”. Se dovessi scegliere una storia legata a Syd che ti sta particolarmente a cuore, quale racconteresti ai nostri lettori?
“Un’immagine che ci piace evocare è quella dei giovanissimi Syd e Roger che affrontano il viaggio della vita per andare da Cambridge a Londra a vedere lo show di Gene Vincent. È una storia serena, che sa ancora di brufoli in faccia e ha i dolci contorni di una vita ancora tutta da vivere.
Al ritorno, in treno, l’esaltazione prende il sopravvento e i due amici progettano con fervore l’equipaggiamento della band che sognano di costituire: tutto quello che serve sono appena due amplificatori Vox! Questa piccola storia è come una cartolina; talmente evocativa che lo stesso Waters ne ha accarezzato il ricordo durante la sua ultima tournée”.
LA DISTOPIA ROCK DI ANIMALS
– “Animals” ha segnato un nuovo cambio di rotta nella produzione dei Pink Floyd, con sonorità più dure e cupe e testi caratterizzati dal grande impegno sociale e politico, come “Pigs (Three different ones)”. Cosa ha portato a questo cambio di rotta e quali sono state le principali influenze, oltre al libro “Animal farm” di Orwell?
“Sono tanti fattori. Il primo, da non sottovalutare, è che nel 1977 i Floyd sono ormai una realtà consolidata che naviga a vele spiegate nel firmamento del rock; se anni prima (come in Dark Side) il freno sembrava opportunamente tirato, ora Roger Waters si persuade all’idea che non ci sia più nulla da nascondere e che certi affondi possano essere fatti di mannaia e non più di fioretto. L’anno in sé, inoltre, non è una data qualunque sul calendario: in Inghilterra spirano impetuosi i venti del punk e un’opera come Animals, così graffiante e velenosa, tiene botta ad un periodo che ha invece tagliato la testa a molte altre storiche rock band. Per questo motivo non stupisce che un album di tale portata esca proprio in un periodo così tumultuoso, solcando con abilità le acque agitate del momento.
In seno al gruppo, peraltro, stanno cambiando le dinamiche interne e il timone sembra sempre più in mano a Roger, il quale sta rincarando i suoi testi di ruggini crescenti e nerbate al sistema. Premessi questi fattori, ci sono da sottolineare almeno altri due aspetti, perché Animals scoperchia una pentola che è sul fornello da tempo: le invettive contro il music business, e di riflesso verso il sistema capitalistico che spreme l’individuo fino all’osso, avevano già permeato almeno due brani di Wish You Were Here (Welcome To The Machine e Have A Cigar, inseriti in un album già di per sé solcato da una certa tristezza di fondo) e last but not least c’è da considerare il fatto che Gotta Be Crazy e Raving And Drooling (poi rinominati Dogs e Sheep) sono stati scritti insieme a Shine On You Crazy Diamond e avrebbero dovuto uscire già nel 1975. Questo a dimostrazione che certe tendenze aggressive gorgogliavano ben prima del ‘77: c’è però un certo scollamento in seno al gruppo quando è ora di progettare il dopo Dark Side (alludo al 1974), e durante una riunione plenaria per affrontare la situazione i Floyd optano per tenere i due brani debitamente in ghiaccio.
Torneranno in auge nel 1977, con testi e titoli modificati. In quanto alla “Fattoria Degli Animali” di Orwell, c’è da fare una precisazione. Fonte di ispirazione certamente sì, ma con sviluppi inediti: attraverso la metafora degli animali, il libro guardava al sistema sovietico. Le reprimende di Waters, invece, mirano all’ambito socioeconomico di stampo occidentale. Temi che torneranno prepotenti in tutte le produzioni successive, da The Wall a The final Cut. E ancor di più durante la sua parabola solista extra Floyd”.
THE WALL, PINK E LE VICESSITUDINI DI ROGER WATERS
– Cosa c’è dietro la “guarigione fugace” di Comfortably Numb e quanto si distacca la nuova versione proposta da Roger Waters, in termini di significato, dall’originale? Possono esserci delle sovrapposizioni tra la figura di Pink e le vicissitudini personali di Roger Waters, che l’hanno poi portato a diventare l’uomo e l’artista che è oggi?
“La vicenda dell’iniezione tonificante rimanda a un preciso episodio biografico: durante un concerto dei Floyd a Philadelphia nel 1977, Roger accusò violenti crampi allo stomaco e fu rimesso in sesto con un rilassante muscolare iniettato da un medico.
Nel concept di The Wall, in una visione certo modificata per esigenze narrative, l’iniezione è dopante, una sorta di cura immediata per rivitalizzare l’inerme Pink e spedirlo dritto sul palco; il tutto sotto gli occhi complici e famelici di un manager che non ha alcun interesse alle condizioni umane e psichiche del musicista. Se poi nel disco cerchiamo ulteriori punti di contatto fra Pink e Roger, potremmo non finire mai di generare accostamenti.
Restando in superficie: la figura del padre, il rapporto controverso con la madre, l’istituzione scolastica massificata e il pugno duro del maestro (nella realtà ci fu un certo professor Eagling, tutto schiena dritta e bacchettate, spesso citato dallo stesso Waters), la dolorosa separazione con la moglie (l’episodio della telefonata intercontinentale in cui Pink scopre il tradimento è effettivamente legata a un ricordo reale), e poi tutta la costruzione psicotica del muro come metafora di progressivo isolamento. Infine, e sto solo pizzicando gli argomenti principali, la generale percezione che i concerti negli stadi fossero talmente orribili da creare una voragine fra band e pubblico, spesso vessato (eppure entusiasta di esserlo) dalle scosse telluriche rock come fosse carne da macello.
Tuttavia la figura di Pink non rimanda sempre e forzatamente a Waters, essendoci evidenti rimandi anche a Syd e a personaggi e situazioni di vario tipo. Una su tutte: la scena in cui lo stesso Pink devasta la stanza d’albergo è frutto di un preciso ricordo legato all’amico Roy Harper, il quale ebbe un attacco d’isteria durante il Festival di Knewboth del ’75 facendo a pezzi il suo camper.
Per quanto riguarda l’attuale rappresentazione dei temi di The Wall, direi in prima istanza che Waters ha collocato il suo concept a un livello diverso, spostando il focus dell’indagine dal particolare (la vicenda semi autobiografica di un uomo alle prese coi suoi muri interiori) al generale (le dinamiche politico-sociali ed economiche che avvelenano la coesistenza fra i popoli generando muri ideali e fisici fra culture).
Disquisire di questi tempi richiederebbe fiumi d’inchiostro; nell’ultima rappresentazione, comunque, Comfortably Numb avvia il concerto accompagnandosi allo scenario apocalittico di una metropoli trasfigurata da un evento nucleare. Una visione stordente, di grande impatto, ma comunque coerente con gli scenari che permeano l’arte di Waters da The Wall in avanti (si pensi a Two Suns In the Sunset su The Final Cut, all’intero sviluppo concept di Radio K.A.O.S fino a dischi come Amused To Death e Is This The Life We Really Want?)
– “The final cut”, con le sue tematiche politicamente impegnate, può essere ideologicamente considerato un prosieguo di “The Wall”, soprattutto per quanto concerne brani come “The Gunner’s Dream” e “The Hero’s Return”?
“I due dischi sono fortemente legati tra loro: The Final Cut nasce inizialmente come colonna sonora del film “Pink Floyd The Wall” di Alan Parker. Un riadattamento musicale inedito, ma che attingeva a piene mani dai brani del disco originale del ’79. Il 2 aprile 1982, però, la cronaca avvampa e cambia i giochi in tavola: scoppia la guerra delle Falkland fra Inghilterra e Argentina, con un terribile braccio di ferro armato che si protrae per più di due mesi.
La guerra verrà risolta con la vittoria inglese, ma le perdite generali saranno ingenti: centinaia di morti (su entrambi i fronti), senza contare il dissanguamento delle casse nazionali inglesi già perturbate dalla profonda crisi economica che scuote il Paese da anni. Per Waters, profondamente rabbioso per il corso degli eventi, la cronaca di quei giorni schiude inquietanti rimandi alle tragedie consumate nel secondo conflitto mondiale.
Come se il sacrificio dei caduti del tempo (suo padre compreso), avvenuto nel nome di un futuro di libertà, pace, prosperità e collaborazione fra i popoli (il “sogno del dopoguerra”), fosse stato irrimediabilmente vanificato nel nome di discutibili pretese post coloniali, a loro volta avvelenate dalla competizione che domina le leggi del mercato internazionale. Il progetto The Final Cut subisce così un drastico cambiamento: da colonna sonora del film The Wall si trasforma in un album inedito composto da nuove canzoni. Alcune tracce, però (il che evidenzia il forte legame tra i due lavori), provengono direttamente dalle sedute di The Wall: è il caso, ad esempio, di The Hero’s Return (era Teacher Teacher durante i lavori in studio del 1978-1979).
Oppure The Fletcher Memorial Home, One Of The Few e l’omonima The Final Cut, considerate (e poi escluse) già nel 1979, Proseguendo: Your Possible Pasts si ispira a una canzone scritta da Waters nel 1968 (in qualche modo dedicata all’amico Syd Barrett) intitolata Incarceration Of A Flower Child”, poi incisa da Marianne Faithfull nel 1999.
La canzone The Final Cut, inoltre, (sottotitolata “Requiem per il sogno del dopoguerra”) esce con la dedica in calce al padre Eric Fletcher Waters, la cui figura è già ampiamente presente nei solchi di The Wall; il suo nome campeggia, infine, anche in una delle canzoni più rappresentative del disco: The Fletcher Memorial Home.
A Nino Gatti, Stefano Girolami e Pamela Rossi va un sentito ringraziamento.
Corrado Parlati