Gli AFTERSAT sono un gruppo nato nel cuore della provincia napoletana, dove cinque ragazzi hanno unito i propri background artistici e culturali.

Il risultato? Un suono che unisce i suoni mediterranei con quelli folk e rock.

Per presentare “Ce credo ancora” – brano che vede nelle vesti di produttore Massimo De Vita dei Blindur – ho scambiato due chiacchiere con loro.

Ogni storia è giusto che venga raccontata dall’inizio. Come sono nati gli AFTERSAT?

Gli AFTERSAT sono nati dall’incontro casuale tra Salvatore Pone e il resto della band, all’epoca i The Charliest, con l’obiettivo di arrangiare e interpretare i suoi testi. I due percorsi che si sono incrociati sono stati in un certo senso veramente complementari: da un lato una certa capacità di arrangiamento e di esperienza live, dall’altro un’accurata ricerca di suoni e grande creatività. È proprio da quest’unione che esce fuori il loro primo EP, “AFTERSAT”, interamente in inglese e con sonorità molto diverse da quelle attuali.

Ascoltando “Ce credo ancora” ciò che emerge è un forte senso di smarrimento, di perdita. Qual è il messaggio che questo brano porta con sé?

“Ce credo ancora” è apparentemente un brano d’amore, uno dei pochi del nostro repertorio. Apparentemente racconta di una “speranzosa rassegnazione” per la fine di una relazione e il conseguente senso di smarrimento. In realtà bisogna tener conto dell’universalità del brano e dei rapporti: chi manca, mentre sale la luna e cala la notte? Un’amante o una figlia? La Terra d’origine o la propria Casa?

Ci piace definire questo brano come il lato B di “Terra C’Accide”, proprio in virtù del fatto che può essere coniugato proprio come lo smarrimento, e quindi la conseguenza, dovuto all’allontanamento e alla separazione dalle proprie origini, dai propri luoghi, dalle proprie persone.

“Terra c’accide / Te ‘ncanta e ‘ncatena / E si vulasse guardannat’ ‘a ciel’ / Dint’ ‘e culur’ tra i vicol’ scur’ / Vulasse p’ ‘o mare / Sentenn’ l’addore”. Quali sono state le principali fonti d’ispirazione che hanno portato alla nascita di Terra c’accide?

“Terra c’accide” è senza dubbio il suolo che ami e che ti incanta, al quale sei fortemente legato, ma che allo stesso tempo di incatena e ti confonde: qual è il bene? E il male?

Il brano è nato proprio nel momento in cui un componente del gruppo ha dovuto allontanarsi per lavoro dalla propria città e dalla propria casa. Ed ecco che dal distacco e dalla mancanza ci si rende conto del valore e dell’amore per ciò che è lontano.

Qual è il vostro rapporto con Napoli e con la lingua napoletana?

Abbiamo iniziato a scrivere in napoletano relativamente da poco tempo, cioè dalla pubblicazione dell’EP “INTOSOLE”, prodotto da Daniele Grasso. Prima di allora scrivevamo solo ed esclusivamente in inglese.

Dopo i primi brani scritti in napoletano ci siamo chiesti: “ma perché non lo avevamo fatto prima?”, perché il napoletano è carnalità, impulsività, istintività. Se sei di Napoli e ti arrabbi non lo fai di certo in italiano (anzi…). Questo è il motivo per cui scrivere e cantare in questa lingua ci è risultato molto naturale e spontaneo.

Proviamo a fare un gioco: apriamo la playlist degli AFTERSAT. Quali sono gli artisti che hanno maggiormente influenzato il vostro gusto musicale e perché?

Se apriamo la playlist degli AFTERSAT esce sicuramente un grande e bellissimo casino, dovuto al fatto che ognuno di noi ha delle influenze proprie, che riesce ad esternare attraverso il proprio strumento.

Da un lato la forte tradizione napoletana a cui ci rifacciamo molto, dall’altro molta musica afro ed etnica, in particolare musica Tuareg (Bombino, Tinariwen), che ha portato la nostra attenzione sulle sonorità nord africane e medio orientali. Tra questi poniamo particolare attenzione anche a gruppi italiani della stessa matrice (I Hate My Village, Savana Funk).

Nell’identità comune giocano un ruolo fondamentale anche gruppi blues rock moderni, come i The Black Keys, Larkin Poe, ed inevitabilmente artisti che hanno fatto la storia, come i The White Stripes, Chris Cornell, REM.

Con “Sanpapiè” avete partecipato a “Voci per la libertà” per Amnesty International nel 2021. Che ricordi avete di quel momento?

È stato uno dei primi festival fuori Campania a cui abbiamo partecipato e già questo è indice della nostra emozione. Ma ciò che ci ha colpito maggiormente è stata la particolare attenzione per i diritti umani e per la loro condivisione, la responsabilità di essere portavoce in quel momento di un principio fondamentale: il diritto alla vita.

A Chiara Ricci va un sentito ringraziamento

Intervista a cura di Corrado Parlati

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