This is not a drill. Non è un’esercitazione, assicura Roger Waters, intento a girare il mondo con il suo primo tour d’addio. Attenzione: nessuna voglia di autocelebrarsi, si tratta dello show più politico del cantautore, che guarda in faccia i propri demoni e quelli dell’umanità intera e mette al servizio della narrazione ogni singola canzone. This is not a drill, appunto.
Alle 20:30 in punto le luci si abbassano, la voce del leader creativo dei Pink Floyd annuncia che il countdown è finito: le persone sono pregate di prendere posto, lo show sta per cominciare. Per tutti, tranne che per coloro i quali “adorano le canzoni dei Pink Floyd, ma proprio non sopportano le idee politiche di Roger Waters”: per loro, infatti, è tempo di andare al bar.
THIS IS NOT A DRILL TI METTE DAVANTI I DEMONI DELL’UMANITA’
Si viene subito immersi in un’ambientazione tetra, composta da grattacieli ridotti a uno scheletro probabilmente da un bombardamento. Uno scenario quasi apocalittico. L’umanità continua ad avanzare impassibile, cupa, con la testa china sul proprio smartphone: è la nuova versione di Comfortably Numb, in cui la guarigione non è nemmeno apparente e il ritornello è quanto mai vicino a un canto funebre.
Sul finale della prima canzone, un disperato canto proveniente dalle viscere più profonde della morte, con richiami a The Great Gig in the Sky, accompagna l’ascesa in cielo di un maiale. È la perfetta fotografia del momento che sta attraversando l’umanità.
Si sente da lontano il suono di un elicottero che lentamente si avvicina, il maxischermo a croce si alza: Roger si mostra all’intera arena sulle note di “The happiest day of our lives”, seguita dalle parti II e III di “Another brick in the wall”: il cambio di mood è netto e deciso. In una continua lotta tra “Us, good” e “Them, evil” – garantisce il governo, c’è da fidarsi – gli intenti del rocker sono subito chiari: è uno show che parla dritto al cuore dello spettatore, aprendo di continuo interrogativi sulla realtà che circonda l’umanità.
Waters, per il suo primo tour d’addio, ne ha davvero per tutti: “The powers that be” ricorda le vittime uccise dalla polizia – da George Floyd in poi – con i relativi crimini commessi: essere neri, essere donne, essere in qualche modo scomodi, mentre su “The bravery of being out of range” si parte da Reagan, con il genocidio del popolo Maya del Guatemala, e si arriva fino a Trump e Biden. Ancora bombe, ancora morti innocenti, ancora crimini di guerra. Se volete saperne di più sulla nuova versione del brano contenuto in “Amused to Death”, leggete queste dichiarazioni.
Se non fosse stato il leader di una elle band più influenti della storia del rock, probabilmente Roger Waters sarebbe stato il Bob Dylan d’Oltremanica. L’inedito scritto durante il lockdown – “The bar”, che sottolinea la totale assenza di socializzazione e di confronto con il mondo esterno – è un brano semplice, voce e piano, che mette in mostra tutta la sua parte più intima e cantautorale.
È un concerto che si fonda quasi esclusivamente su canzoni scritte tra 30 e 50 anni fa, ma è un evento perfettamente contestualizzato nel 2023, senza alcun effetto amarcord: Roger guarda in faccia i demoni dell’umanità – come nei casi già raccontati – e scava con un coraggio incredibile nel proprio vissuto, analizzando gli eventi, le conquiste, e soprattutto le perdite che l’hanno portato a essere l’uomo che è oggi: dalla perdita del padre in guerra a quella dell’amico Syd Barrett – ricordato con una toccante “Wish you where here” accompagnata da una serie di aneddoti raccontati sui video wall – e l’esaurimento nervoso legato alla fine delle sue prime nozze, che ha portato alla nascita di “Shine on you crazy Diamond“, eseguita dalla parte V alla parte VIII.
“Sheep”, invece, ricorda come l’umanità intera sia nient’altro che un gregge, con una pecora volante a fare il giro dell’Arena.
PINK, ROGER E IL LATO OSCURO DELLA LUNA
E quando sale sul palco vestito da dittatore per cantare “In the flesh” e “Run Like hell” è quantomai chiaro che Pink, in fin dei conti, non è altro che un suo alter ego romanzato, afflitto dagli stessi tormenti interiori.
Dopo le acustiche “Deja vu” – intonata con una Kefiah intorno al collo – e “Is this the life we really want”, è il momento del set dedicato a “Dark side of the moon”, in cui a farla da padrone sono Jonathan Wilson alla chitarra e, soprattutto, un meraviglioso Seamous Blake al sassofono. Il momento più alto è rappresentato da “Us and them” reso attuale da una serie di immagini di ordinary men che scorrono sullo sfondo.
Con “Two sunset in the sun”, la reprise di The Bar – accompagnata dal ricordo del fratello maggiore recentemente scomparso – e “Outside the Wall” si conclude una quattro giorni milanese di livello altissimo.
IS THIS THE LIFE WE REALLY WANT?
L’intero show aiuta a mettere in chiaro una cosa: questa non è un’esercitazione. Non solo quando si perde una persona cara, ma ogni qualvolta un giornalista viene arrestato per aver divulgato un video, in cui una persona paga con la propria vita il prezzo del colore della pelle, quando una donna viene venduta o sacrificata, oppure quando la paura viene utilizzata come motore o come strumento di controllo di massa. “Is this the life we really want?” è ciò che dovremmo chiederci tutti, per uscire definitivamente fuori dal muro.
Tornando verso Napoli, dopo la trasferta, riguardo le immagini del concerto di ieri sera e, intorno a me, scorgo persone con gli occhi lucidi a fissare il proprio smartphone per rivivere qualche secondo immortalato. Da ieri sera, infatti, tutti abbiamo qualche conto da fare con una serie immensa di domande. Tuttavia, eravamo stati avvisati: non si sarebbe trattato di un’esercitazione.
Intanto, grazie, immenso Roger.
Corrado Parlati