Giacomo Lariccia è un cantautore italiano che da anni, ormai, vive a Bruxelles.

Per presentare il suo nuovo singolo – intitolato “Liberi” – e ripercorrere le tappe principali di questo cambiamento, noi di MentiSommerse abbiamo avuto il piacere di scambiare due chiacchiere con lui.

– Il 26 novembre scorso è uscito il tuo nuovo singolo, intitolato “Liberi”. Qual è la storia dietro questa canzone? 

Liberi è una canzone che prende spunto da ricordi personali legati alla mia vita e alla città in cui ho vissuto negli ultimi venti anni per poi spostarsi, in un modo più concettuale, e affrontare un tema di portata più ampia, quello della libertà, che dalla notte dei tempi interroga l’uomo.

Negli ultimi venti anni, che sono gli anni di cui si parla in Liberi, si è assistito ad una serie di crisi, reali o virtuali, che ci hanno portato ad una situazione di insicurezza e di paura tali da richiedere una progressiva e inesorabile limitazione delle nostre libertà. Questa situazione eccezionale è stata talmente accettata che da alcune parti si ipotizza un ritorno ad una normalità che abbia però tutte le caratteristiche della straordinarietà dell’emergenza. Paradossale. Direi quasi nonsense.

“Liberi” allo stesso tempo sottolinea che la ricerca di una libertà profonda è un percorso interiore che poco o nulla ha a che fare con le situazioni esterne. Ci si può trovare in carcere e sentirsi liberi ma anche l’opposto: vivere in una situazione di apparente libertà e sentirsi soffocare.

Mi rendo conto che queste che ho accennato sono questioni molto delicate che meriterebbero non solo un approfondimento ben più importante di quello che una canzone può offrire ma anche uno spazio, un tempo adeguati e intellettuali capaci di volare alto, lontano da semplificazioni, allarmismi e populismi.

– Da diverso tempo hai lasciato l’Italia per trasferirti a Bruxelles. Quanto ti ha influenzato questo trasferimento da un punto di vista artistico?

Lasciare l’Italia per me è stato fondamentale perché ha significato avere la libertà di scegliere cosa fare nella vita libero da legami e influenze che pesavano sulle mie decisioni. Il fatto di ricominciare in una città dove potevo reinventarmi mi ha dato tante possibilità e mi ha fatto scoprire non solo l’ebbrezza di costruirsi una vita partendo da zero ma anche la consapevolezza che il peso delle tue scelte te lo porti sulle spalle per tutta la vita.

Da un punto di vista artistico ho sempre avuto la fortuna di riuscire a seguire il cuore. Sono venuto qui a Bruxelles per studiare il jazz e l’ho fatto per tanti anni fino a quando non ho sentito che era necessario un cambiamento. Questo cambiamento per me ha significato un ritorno alle radici, alla musica che mi ha emozionato da adolescente a Roma e ad una riscoperta della scrittura che non avevo mai approfondito prima.

– Quali sono le principali differenze tra il modo di vivere la musica in Italia e quello che hai trovato in Belgio?

Ovviamente ci sono tante differenze. Il Belgio è un paese geograficamente piccolo con una tradizione musicale che non può essere nemmeno lontanamente paragonata all’Italia. Proprio per questi motivi, però, è forse un territorio più aperto ad influenze che vengono da fuori e quindi disponibile a mescolarsi con altre culture.

L’Italia, paese che ha visto nascere e fiorire correnti artistiche che hanno plasmato la cultura mondiale, è forse un po’ più restìa ad accettare qualcosa che viene da fuori dei propri confini. Anche fosse un cantautore che vive fuori dallo stivale.

– Quali sono i cinque dischi che ti hanno maggiormente formato, da un punto di vista umano e musicale?

Ottima domanda. Sicuramente ci inserirei qualcosa di Edoardo Bennato, forse “Sono solo canzonette” anche se potrebbe facilmente essere un qualsiasi suo disco registrato prima degli anni ‘90, un disco di Francesco De Gregori (“Canzoni d’amore” ma anche qui la scelta potrebbe essere molto più vasta), senza dubbio anche “My Song” di Keith Jarret con il quartetto europeo il cui primo ascolto fu per me un vero e proprio shock, la Partita in Am per flauto BWV 1013 di J.S. Bach (qui ovviamente non si può parlare di dischi ma adoro le interpretazioni del flautista barocco Marc Hantaï) e finirei con un disco, anzi un concerto, del PAF trio (Paolo Fresu, Furio di Castri, Antonello Salis) trio di cui ho ricordi emozionanti di concerti a La Palma di Roma prima di partire per Bruxelles. Finisco dicendo che è difficile limitare a cinque i dischi che hanno segnato la mia vita. Sicuramente dimentico tanti dischi importanti che ho ascoltato e di cui porto ancora nel cuore l’emozione. Se tu fossi così gentile da darmi altre due o tre (quattro, cinque, sei…) possibilità, aggiungerei probabilmente qualcosa di Jacques Brel, un De André, Caetano Veloso, quasi tutta la discografica di Paul Simon, Rattle and Hum degli U2 e, perché no?, anche un Piazzolla.

– Progetti futuri di Giacomo Lariccia? 

Credo siano gli stessi progetti di tutti i musicisti rimasti fermi in questi anni e che portano ancora le ferite di questa pandemia. I progetti si riassumono nel ricominciare a suonare.

Inizieremo all’auditorium Parco della Musica a Roma il 22 gennaio 2022, proseguiremo con un tour per il centro e sud Italia, poi si riprenderà in Belgio e per la fine dell’anno in Francia e Germania.

A Giacomo Lariccia e Giulio Di Donna va un sincero ringraziamento.

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