“Non c’è luogo tranquillo nelle città dell’uomo bianco. Nessun luogo per ascoltare l’aprirsi delle foglie in primavera o il fruscio delle ali di un insetto”. Il gran capo Sealth delle tribù Duwamish e Squamish aveva assistito ai primi insediamenti europei del XIX secolo nell’area nord-occidentale degli Stati Uniti, dove la sua gente abitava da almeno 4mila anni. Ed a lui è ispirato il nome della città. Seattle sta molto in alto, a 160 chilometri dal confine con il Canada. Qui, nel 1916, venne fondata la Boeing, che all’alba della Guerra Fredda si mise a produrre anche missili intercontinentali. Poi venne la grande crisi degli anni ’70: il programma Apollo, al quale la Boeing partecipò significativamente, venne quasi completamente cancellato (le missioni Apollo 18, 19 e 20 furono annullate).

La compagnia sperò di compensare le perdite con il settore civile, ma non ricevette ordini per anni. Inoltre, nel 1971, il Congresso degli Stati Uniti decise di bloccare i finanziamenti a favore dello sviluppo dell’aereo supersonico 2707 (che avrebbe dovuto essere la risposta americana al Concorde anglo-francese). L’azienda dovette dunque abbandonare il progetto, e fu costretta a ridurre il numero di dipendenti da oltre 80.000 a quasi la metà solo nell’area di Seattle.

CRISI, MISERIA, DISOCCUPAZIONE, DROGA

La situazione sarebbe migliorata soltanto tra gli anni ’80 e ’90, ma le crisi cicliche di un settore che dava lavoro praticamente a tutta la città, ebbero pesanti ripercussioni sul tessuto sociale della zona. Prima ancora di Microsoft, Amazon e Starbucks, che avrebbero reso l’economia cittadina meno dipendente dal trasporto aereo. Disoccupazione, miseria e droga, tanta droga, che negli anni ’80 iniziò a invadere l’area del Puget. Nel mezzo di tutto ciò, i giovani che cercavano di sfuggire alla noia, attanagliati da quel mal di vivere tipico degli adolescenti figli di una generazione in crisi e senza un lavoro stabile. Ribelli come tutti i ragazzi, ma con una tristezza di fondo e una insoddisfazione latente. Capelli lunghi, Converse ai piedi, e le classiche camicie a quadri dei lumberjack, i taglialegna della baia del Puget. E tanti locali dove incontrarsi e suonare insieme: è l’humus dal quale viene fuori il grunge. Tutti insieme, tutti nello stesso momento e nello stesso posto: perché tutti si trovavano nella stessa condizione.

LA ROTTURA CON IL PRESENTE, IL RECUPERO DEL PASSATO

Il grunge fa a pezzi l’hair-metal, i sintetizzatori e le tastiere. E’ molto più essenziale in quanto a musica e profondo in quanto a testi. Ma allo stesso tempo sa essere naif ed elaborato. Preferisce estraniarsi dal mondo americano dei self-made-man, dal turbinio delle metropoli e dal caotico andirivieni quotidiano, per isolarsi in un disprezzo intriso di apatia e indifferenza, in una solitudine che nasconde un’angoscia profonda ed una incapacità di porsi in maniera costruttiva rispetto alla vita ed alle relazioni sociali.

Non è un genere musicale, non è un movimento. E’ un luogo preciso della Terra, in cui un gruppo di ragazzi inizia a recuperare delle sonorità passate di moda, in particolare l’hardcore-punk americano. Ma ognuno lo fa a modo suo, lanciando il suo messaggio di insoddisfazione. Chi lo fa riprendendo sonorità punk e noise, come i Nirvana; chi riallaccia il discorso dell’hard, come i Pearl Jam. O anche chi si avvicina molto all’heavy metal, come i Soundgarden e soprattutto gli Alice in Chains.

IL TRAUMA, LA MUSICA, LA DROGA

Layne Staley aveva sette anni quando i genitori divorziarono. Probabilmente il padre era invischiato in loschi affari riguardanti la droga, ma quella separazione rimarrà un evento traumatico per lui. Ben presto nella sua vita avevano fatto capolino poesia e musica, ma anche frustrazione e rabbia latenti, spesso sfogate in maniera violenta contro i suoi compagni di scuola. Vennero i primi gruppi, le prime sbronze, i primi trip. E il 29 settembre del 1992 venne fuori Dirt, secondo disco degli Alice in Chains. Ma definirlo semplicemente “disco” non rende l’idea. E’ il racconto di un’epoca, è il disegno di una generazione, è la storia di un posto. Dirt è cupo: è il camminare sul ciglio di un burrone, su una corda tesa fin quasi al punto di spezzarsi. E’ rotto dalla voce di Layne Staley che si staglia a volte implacabile, a volte addolorata, alienata e profonda.

Dirt è claustrofobico: non vuole autocompiacersi, non cerca ammiccamenti o applausi. Va avanti implacabile per la sua strada, fatta di atmosfere dure, evocative: porta in grembo i Black Sabbath, cresce lentamente come se fosse stato concepito al sole del deserto della California, a volte si nasconde dietro una flebile speranza di qualcosa di migliore. Ma è un’illusione che dura poco. L’irruenza è accompagnata dal canto afflitto di Layne, che sa essere rabbioso e malinconico nella stessa strofa. Ma è sin troppo semplice comprendere la fragilità che si nasconde dietro la potente barriera sonora messa in piedi dal gruppo.

UN DISCO, UNA GENERAZIONE

Dirt spaventa, ma si insinua lentamente nella testa e nel cuore. E’ il disco che meglio di tutti racconta gli Alice In Chains, Seattle, la dipendenza dall’eroina, la paura di vivere. Un’epoca, una città, una generazione. Allucinato, afflitto, defunto. I riff di Jerry Cantrell si susseguono incalzanti, il cantato è a volte nenioso, altre corale, spesso impassibile e apatico. Una sorta di veglia onirica condita da sapori di hard, noise e blues acido. La droga è il demone di Staley, in essa trova rifugio dal mondo e dal proprio male di vivere, un terribile e irreversibile dolore.

Junkhead descrive la fase iniziale della caduta, nella title track subentra l’angoscia, Angry Chair è un capolavoro della paranoia in musica. Dirt è il un ritratto di un uomo che “aveva perso il controllo, che si sentiva così piccolo giù nella fossa, desideroso di volare ma consapevole di avere le ali tarpate”. Il disco venderà quattro milioni di copie nei soli Stati Uniti, restando nelle chart di Billboard per ben due anni. Gli Alice In Chains diventeranno delle superstar mondiali, parteciperanno al Lollapalooza nel 1994 e daranno alla luce altri due album (Jar of flies e Alice in Chains), ma non andranno più in tour.

STRADA SENZA RITORNO

Layne si era incamminato su una strada senza ritorno. Nell’ultima intervista prima di morire, nel gennaio 2002, trovò la forza per dire poche cose. “So che sto morendo. Non mi sento bene. Questa cazzo di droga che uso è come l’insulina di cui un diabetico ha bisogno per sopravvivere. Non uso le droghe per “sballarmi”, come pensa molta gente. Lo so di aver fatto un grave errore quando ho cominciato ad usare questa merda. E’ una cosa molto difficile da spiegare. Il mio fegato non funziona più, vomito sempre e mi cago addosso. E’ un dolore insopportabile. E’ il peggior dolore del mondo. La droga distrugge tutto il corpo.” Il 19 aprile fu trovato senza vita. Era morto da due settimane, completamente solo.

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