Nel 2001 andavo alle medie, e quel giorno di non so quale mese, come sempre mio padre mi aspettava in macchina all’uscita da scuola per tornare a casa. A papà piaceva ascoltare la musica di un “certo livello”, e le sue preferenze radiofoniche da viaggio si attestavano saldamente tra Radio Capital e Radio 24, con sporadiche capatine su RDS, così, tanto per restare giovani dentro. Nell’autoradio c’era la possibilità di inserire 6 canali in memoria, e gli altri tre disponibili erano di mia proprietà. In quei 10 minuti di strada che ci separavano da casa potevo usufruire di quei tre tasti a mio piacimento, sempre che non ci fosse qualche noioso editoriale di Zucconi a impedirmelo. Quel giorno è andata bene. Essendo un piccolo tunzettaro tutto Hit Mania e Deejay Time, clicco su uno tra 5 e 6 (Radio Deejay o M2O). E succede qualcosa.
Dalla radio escono suoni particolari. La musica che piaceva a me, ma diversa. Non sapevo in cosa fosse diversa, ma lo era tanto. C’era la cassa, c’erano i clap, i kick, c’erano i suoni sintetici ed elettronici, c’era l’autotune sulle voci, ma era tutto di più, tutto nuovo, tutto stranamente diverso e inconsciamente migliore. Stavo ascoltando One more time dei Daft Punk.
Nella mia vita ho tanti ricordi legati alla musica, ma i momenti esatti in cui ricordo di aver ascoltato per la prima volta una canzone si contano su una mano, e non servono nemmeno tutte le dita. Quella melodia andava oltre il ritmo, oltre il genere della musica dance, di cui mi ero invaghito nei miei primi anni di adolescenza. Percepivo davvero che non si trattasse del solito tunz tunz, e che chiunque avesse creato quella canzone non sarebbe finito nel vasto dimenticatoio della musica commerciale. Il futuro della musica era lì. Con gli anni mi accorsi di avere avuto dannatamente ragione, e direi di non essere stato il solo.
Vent’anni dopo mi ritrovo a scrivere di un duo di musicisti francesi che hanno cambiato le regole del gioco, conferendo alla musica elettronica una rispettabilità che non sempre le era stata riconosciuta da chi la reputa la classica musica da spingitori di bottoni su un computer.
Fu una giornalista britannica a definire i Darlin, il primo gruppo di cui facevano parte, come “daft punky trash”, ovvero dei ragazzetti punk che producevano musica da spazzatura. Il resto è storia.
Una storia che ieri, 22 Febbraio 2021, è giunta al termine. Ad un tratto è apparso sul loro canale un video dal titolo Epilogue. Nel video viene ripresa una sequenza di Electroma, un loro film del 2006. Nel film originale i due robot provano in tutti i modi di integrarsi nella società degli umani, che però li rifiuta per la loro diversità. Alla fine si ritrovano nel deserto e si “autodistruggono a vicenda”. In Epilogue, invece, viene lasciata soltanto l’esplosione di uno dei due robot (Silver), mentre l’altro (Gold) cammina in solitudine verso il tramonto. Le più calde voci di corridoio in giro per il web vedono in tutto ciò un messaggio su una separazione non del tutto totale, forse non consensuale, arrivando a ipotesi di un futuro fatto di progetti diversi, produzioni soliste sotto altro nome, e chissà cos’altro. Dato il mistero che da sempre avvolge i Daft Punk, il classico “non lo sapremo mai” lascia il tempo che trova. Lo sapremo quando lo sapremo (se lo sapremo).
Inutile elencare album, singoli, premi, e quant’altro. Il loro repertorio parla da sé. Non sarebbe nemmeno giusto fare commiati o celebrare funerali, perché l’arte che i Daft Punk sono stati in grado di creare li immortalerà nei decenni a venire, come spetta a tutti i grandi artisti. Certo, fa un po’ rabbia sapere che non potremo più sperare in un loro concerto o che non ci saranno più nuovi album o produzioni. Eppure, più che piangere per ciò che è finito, bisogna gioire per ciò che è successo.
La fine di un’epoca. Questa è la frase più ricorrente tra i commentatori dello scioglimento. I Daft Punk sono stati una colonna sonora ridondante per tutti coloro che negli ultimi 25 anni hanno avuto a che fare con la musica, che ne ascoltano, che ne producono, o che ne sono in qualche modo appassionati. Fanno parte di quella cerchia di artisti che ha accompagnato la crescita di una generazione. Crescendo e maturando insieme. Una generazione che aveva bisogno di rottura e al contempo di rassicurazioni, che ha visto cambiare il mondo prima ancora di conoscerlo come si deve, con le certezze e le speranze di fine secolo che andavano a schiantarsi su quelle due torri. Serviva un ritmo deciso quanto rassicurante, che ci distraesse dalla paura e che riuscisse a ricostruire i sogni messi a dura prova dai venti di guerra e terrore che hanno caratterizzato l’inizio del nuovo millennio.
Ci pensa la musica. Lo ha sempre fatto. Solo che adesso, al posto delle chitarre e del reggae di Woodstock c’erano sintetizzatori, campionamenti, composizioni elettroniche dalla melodia inconfondibile. Anni di musica sempre nuova, spaziando dalla tecno più dura al funky più elegante. Sperimentazioni che non temevano il mercato, intere canzoni composte da semplici loop di pochi secondi e testi ridotti al minimo, con voci distorte quasi al punto da renderle strumenti irriconoscibili e incantabili. Melodie che un tempo sarebbero rimaste confinate nel buio dei rave e delle discoteche e che invece riuscivano a scalare classifiche, affollare le radio, e riempire i palinsesti di MTV con videoclip che resteranno nella storia.
I Daft Punk hanno avuto coraggio. Hanno saputo dare una loro personalissima forma alla loro personalissima arte. Non hanno lesinato impegno in ciò che facevano, si sono costruiti una reputazione, hanno guadagnato il rispetto incondizionato da parte di discografici e fan, attraverso coerenza e voglia di mettersi continuamente in gioco. Tutto ciò costruendosi un personaggio, senza mai farsi vedere in volto, facendo appena una sola tournee in 28 anni di carriera, limitando al minimo le apparizioni in pubblico e la presenza sui social (ad oggi l’ultimo post sul loro Instagram ufficiale risale al 22 Novembre 2017).
Sono stati precursori e inventori, ci hanno accompagnato in quel futuro di cui tutti ci parlavano da bambini. Adesso più che mai si ha la sensazione che quel futuro sia infine diventato presente, e che un altro futuro debba ricominciare. L’arte ha da sempre il potere di giocare con il tempo. La loro è stata una concezione dell’arte che inevitabilmente ha dato vita ad una musica indistruttibile, a canzoni da ascoltare e ballare, con passione ed energia. E una volta finite, degne di essere riascoltate, one more time.