Realizzare un’intervista con Enrico Ruggeri rappresenta innanzitutto la possibilità di confrontarsi con un artista di una grandissima delicatezza.

Chansonnier dall’animo rock, scrittore, presentatore, è da poco tornato sulle scene con “America“, canzone che ripercorre la vicenda di Chico Forti, e “Un gioco da ragazzi“, romanzo uscito il 19 novembre scorso.

Dalla presentazione delle due nuove uscite che lo vedono protagonista, è nata una chiacchierata sulle sue influenze musicali e su alcuni dei passaggi più importanti della sua carriera.

Partiamo da “America (Canzone per Chico Forti)”, brano accompagnato da un video realizzato con la regia di Thomas Salme e le illustrazioni di Massimo Chiodelli. Com’è nata questa canzone?

La canzone è nata come nascono le canzoni. Ci sono cose che ti emozionano, magari rimangono lì anche per anni, ci pensi ogni tanto, poi un giorno misteriosamente ti siedi davanti al pianoforte con un foglio bianco e riaffiora quel pensiero che avevi avuto tempo prima.

Qualche mese fa ho scritto questa canzone. Ho il mio studio e mi sono trovato con i miei musicisti, l’abbiamo arrangiata, abbiamo suonato e cantato. Dopodiché l’ho fatto sentire a Gianni Forti, lo zio di Chico, che mi ha messo in contatto con Massimo Chiodelli, fumettista che ha scritto un libro su Chico Forti, e Thomas Salme, regista svedese amico di Chico.

Quindi da lì ci siamo trovati, abbiamo deciso di fare un cortometraggio, che è diventato un video, e abbiamo deciso di pubblicare anche la canzone.

Dal 19 novembre scorso è uscito “Un gioco da ragazzi” per La nave di Teseo. Tramite la vita dei fratelli Scarrone, si ripercorrono alcune delle tappe fondamentali della storia d’Italia. Quanto c’è del vissuto di Enrico Ruggeri nella caratterizzazione dei personaggi del romanzo?

Non è autobiografico, ma sono personaggi che ho conosciuto. Io ho vissuto gli anni settanta, gli anni di piombo. Ero in uno dei licei più caldi d’Italia, il Liceo Berchet di Milano, per cui di personaggi del genere ce n’erano parecchi.

Il mio modo di pormi è stato quello di cercare di raccontare la storia di un paese attraverso la vita di una famiglia che viene devastata da quella che poi si rivelerà essere una tragedia: un figlio terrorista latitante rosso e un figlio terrorista latitante nero.

Questo genererà molti eventi anche avventurosi, thriller, ma soprattutto si racconta la storia di un paese.

Gli anni ’70 sono un decennio fondamentale nello sviluppo del romanzo, come si può evincere anche dalla copertina, ma sono soprattutto gli anni della formazione musicale giovanile di Enrico Ruggeri. È il periodo in cui, in Inghilterra, si sviluppano prima il glam rock e poi il punk. Partiamo da quest’ultimo: come si è avvicinato Enrico Ruggeri al mondo del punk? 

Io suonavo già, facevamo musica e qui torniamo per un attimo al romanzo: quando vedevo che nella mia scuola succedevano cose come scoppio di lacrimogeni, botte e poliziotti in assetto da guerra, io andavo a suonare in cantina con i miei amici. Era una salvezza.

All’inizio facevamo cover di quello che verrà chiamato progressive rock. Quindi tu suonavi e pensavi che non avresti mai imparato a suonare le tastiere come Keith Emerson o le chitarre come loro, tutta gente fresca di conservatorio, bravissima. Pensavi di avere delle cose da dire ma non di non riuscire a dirle.

Poi arriva il punk, vai in Inghilterra e trovi dei ragazzi che suonano peggio di te, però si chiamano Sex Pistols, The Clash, Damned. Hanno una forza intrinseca grandiosa che li porta a fare grandi cose. 

Il punk diventa per tutti una sferzata, un qualcosa di molto importante.

Del glam rock, invece, uno dei massimi esponenti è stato David Bowie, di cui ha più volte interpretato alcune canzoni e a cui, soprattutto, ha dedicato “Lettera dal Duca”. Cosa ha rappresentato per Lei una figura come quella di Bowie, capace di essere uno nessuno e centomila?

David Bowie è stato il coraggio, la creatività, la voglia di non sedersi mai, di evolversi. Arriva al successo con Ziggy Stardust, nel momento di massimo successo “uccide” il suo personaggio, si ripresenta come Duca Bianco, con un altro genere.

Poi va a Berlino con Brian Eno, Bob Fripp e Iggy Pop e genera un’altra musica ancora. È un torrente di idee, un punto di riferimento per chiunque suoni.

Una delle parole chiave del periodo che stiamo attraversando è “solitudine” e a questo stato d’animo Lei ha dedicato “Il mare d’Inverno”. Ricorda com’è stato il processo creativo che ha portato alla nascita di questa canzone?

Il mio pensiero era al mare di un posto dove io vado da quando ero adolescente, Marotta, un paesino tra Fano e Senigallia. Quando ho scritto il pezzo avevo davanti questa immagine.

Volevo dare un’immagine di solitudine e ho avuto la fortuna di rendermi conto che, stranamente, nella canzone nessuno aveva parlato del mare d’inverno. Mentre nella pittura i pittori ritraevano il mare d’inverno, come nel cinema e nella letteratura, le canzoni erano tutte pinne fucile ed occhiali, ma non c’era il mare d’inverno.

Credo che i grandi successi siano anche andare a occupare un posto vuoto e il mare d’inverno ha sicuramente occupato un posto vuoto.

“Ognuno lascia un segno sulle persone più sensibili. E il fiume cambia il legno mentre lo trasporta via”, canta in “Confusi in un playback”. Se c’è una cosa che questa pandemia ci ha insegnato, è che siamo tutti inevitabilmente interconnessi l’uno all’altro. In un mondo sempre più individualista, quanto è importante il ruolo dell’empatia?

È molto importante, soprattutto quando si è in pochi. L’empatia, quando sei parte di una minoranza, ti fa evitare di sentirti solo.

In questo periodo, in cui c’è una musica che magari non è un granché, rispetto a quella con cui sono cresciuto io, che ci sono valori che non sono granché, nel momento in cui trovi qualcuno con cui stabilire un contatto diventa una cosa importante.

Sono tante, nel corso degli anni, le canzoni che hanno uno sfondo religioso o comunque spirituale. Qual è il rapporto di Enrico Ruggeri con la fede e la spiritualità oggi?

È un rapporto buono, magari non ortodosso, nel senso che non sono uno che va a messa tutte le domeniche. Sono convinto che la morte sia un principio di qualcosa più che la fine di qualcos’altro. Ho una visione abbastanza spiccata della trascendenza.

A Sanremo ha partecipato undici volte, arrivando al primo posto nel 1987 con “Si può dare di più” e nel 1993 con “Mistero”. Che ricordi ha di quei momenti e quanto è stato forte l’impatto di una canzone meno sanremese, dal punto di vista delle sonorità, come Mistero?

Mistero è stata una sfida vinta incredibile. In settant’anni è l’unico brano rock che ha vinto il Festival, un eveno epocale. Poi dall’anno dopo il Festival è tornato a essere quello che è sempre stato, però “Mistero” è stato da un punto di vista dell’attualità di genere un lampo nel buio.

Mai più pensavo che avrei vinto. Probabilmente, col senno di poi, oltre a essere un pezzo rock, è un pezzo con una chiave accattivante che la gente ricorda, ma in quel momento è stata una gioia notevole.

Lei ha dedicato un disco a Frankenstein, nel quale analizza le principali tematiche del capolavoro di Mary Shelly. Ricorda com’è nata l’ispirazione per la realizzazione di questo disco e quali sono state le principali influenze letterarie nel corso della sua vita?

L’ispirazione è nata dal fatto che ho letto il romanzo e Frankenstein è il tipico romanzo che puoi leggere a strati: se lo leggi a quindici anni, come mi era capitato la prima volta che l’ho letto, ti diverti, mentre se lo leggi a quaranta, cinquanta o sessanta trovi sempre più succo dal quale abbeverarti.

In particolare, Frankenstein, quando l’ho riletto, conteneva una serie di elementi molto attuali: lo scontro eterno tra la scienza e la filosofia, tra la scienza e l’etica morale, la paura della gente di morire, di invecchiare, della solitudine, la necessità dell’amore. Ci sono una serie di temi attualissimi e mi è nata l’idea di fare un concept album.

Per quanto riguarda le mie influenze letterarie, sono tantissime: da quelle adolescenziali come Bukowski, Kerouac, John Fante, Hemingway, tutta la parte del disagio avventuroso che si sente quando non hai ancora vent’anni, a grandi scoperte come Proust, la letteratura russa, Heinrich Böll, che è forse il mio scrittore preferito del novecento.

Arriviamo a “Una storia da cantare”. Andando ad analizzare il songbook dei vari artisti ai quali è stata dedicata una puntata, c’è un qualcosa che l’ha impressionata particolarmente?

La vastità e l’attualità del repertorio. Io ho raccontato canzoni di cinquant’anni fa e dubito che le canzoni che sono in classifica oggi verranno ricordate con lo stesso affetto tra cinquant’anni.

È un’opera di divulgazione ancora più bella perché fatta in prima serata su Rai Uno.

A Enrico Ruggeri e Marta Falcon va un sentito ringraziamento da parte della redazione di MentiSommerse.

Intervista a cura di Corrado Parlati

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