In un’intervista risalente al 1951 Eugenio Montale raccontava che l’oggetto della sua poesia fosse la condizione umana di per sé, e non un certo avvenimento storico. Avvertiva, però, che questo non significava essere ciechi di fronte a quello che succedeva al di fuori dell’uomo (e che, naturalmente, ne era condizionato e lo condizionava) ma, piuttosto, «non scambiare l’essenziale col transitorio»: in questo senso persino la durata quasi mitica della Storia appariva più breve rispetto al protrarsi dell’umanità.

A quasi un anno di distanza dall’ultima volta che abbiamo parlato di Montale, ritorno volentieri su “La Bufera e altro”, terza raccolta del poeta genovese, pubblicata nel 1956 (qui disponibile in una bellissima edizione commentata).
Non solo: ancora una volta restiamo all’interno della prima sezione per provare a interpretare attraverso due testi eccellenti e molto noti, cosa significhi per Montale estrarre l’uomo dalla Storia, condurre il contingente a concetto, a simbolo riutilizzabile.

Cosa significhi, cioè, la speranza che il genere umano possa tirarsi fuori dal furore senza senso della guerra e come questo possa avvenire individuo per individuo, persona per persona.
Due testi in cui l’io poetico, attraverso il ritratto di un processo di catabasi e anabasi, racconta di come una salvezza sia possibile, di cosa voglia dire lasciar andare e di come anche nell’assenza alberghi sempre l’amore.

LA BUFERA, O LA CADUTA /

La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,

 

(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)

 

il lampo che candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità d’istante – marmo manna
e distruzione – ch’entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l’amore a me, strana sorella, –

 

e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa…

 

Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,

 

mi salutasti – per entrar nel buio.

Nonostante questa poesia non fosse stata la prima ad essere composta da Montale (‘Gli orecchini’, di poco successiva, la precede cronologicamente) è stata però collocata in apertura di sezione e quindi dell’intera raccolta. In questo senso il testo assume una valenza proemiale ed epitomica rispetto all’intero libro, dal momento che ne condensa tutti quanti i temi, i quali verranno poi declinati diffusamente nelle numerose poesie successive e, in alcuni casi, persino superati.

Il criterio-perno della poesia (e dunque del libro) è la bufera, metafora immediata della guerra che infuria oltre e prima delle pareti della letteratura (ricordo che questa poesia trova una sua prima pubblicazione in rivista nel 1941, 15 anni prima dell’uscita del libro). È lo stesso Montale ad affermare che oltre alla guerra reale, storica, occorre considerare la ‘bufera’ in modo trascendente e metafisico. La guerra di tutti è lo sfondo della guerra di ciascuno, la guerra che ognuno cova dentro di sé, inconoscibile e incomunicabile agli altri: ed è qui che si innesta il pensiero della speranza, incarnato nella presenza-visione di Clizia.

Clizia

Irma Brandeis

Come molti sanno, Clizia è la trasposizione poetica di Irma Brandeis, studiosa americana amata da Montale e personaggio ricorrente nelle varie raccolte del poeta (a fronte di altre donne reali come la Volpe, Maria Luisa Spaziani e la Mosca, Drusilla Tanzi).
Sullo strascico de Le Occasioni, la seconda raccolta di Montale, Clizia va incontro a un percorso progressivo di allontanamento dall’io poetico che fino ad allora l’aveva cantata.

La bufera è infatti il testo di un’istantanea, la fotografia dell’ultimo momento che Clizia trascorre nei pressi della terra e dell’io prima della propria scomparsa. L’assenza della donna Clizia, infatti, presente sempre e solo per indizi, tracce, fughe tra le pieghe del più vasto liber montaliano, qui si fa sparizione definitiva nel gesto del saluto d’addio, il quale avviene per tutta l’umanità, a fronte dei paradossi e delle atrocità della guerra.

Avviene in questo testo un fondamentale passaggio sul piano politico e sociale, che slitta rispetto ad uno intimo ed erotico. L’esergo della poesia recitava infatti «Porque sabes que siempre te he querido» (‘perché tu sappia che sempre ti ho amato’), ma viene sostituito da una citazione di Agrippa D’Aubigné che, tradotta, fa all’incirca così: “I principi non hanno occhi per vedere queste grandi meraviglie | le loro mani servono solo a perseguitarci”.

Non dovremo tuttavia trascurare i segnali amorosi presenti nel testo né pensare che l’io vi abbia subito rinunciato: se prendiamo in esame il sintagma ‘che ti lega | più che l’amore a me, strana sorella’, bisogna considerare come il ‘più che’ non sia escludente ma stia piuttosto rivedendo le proporzioni tra l’amore privato io/Clizia e quello universale Clizia/umanità e che, inoltre, nel discorso biblico, erano le mogli ed essere considerate ‘sorelle’.

Nonostante l’accettazione della scomparsa/discesa infernale di Clizia, insieme si configurano come un’altra riproposizione della coppia Orfeo ed Euridice con la differenza che l’io è bloccato e non sa se raggiungere l’amata, ripercorrendo il suo cammino nel baratro (pochi testi dopo, in ‘Su una lettera non scritta’, l’io dirà infatti ‘Sparir non so né riaffacciarmi’). Tema dell’immobilità che è uno dei tanti leitmotiv della poetica montaliana, se ricordiamo lo splendido testo Arsenio’ o l’ultimo verso de ‘L’agave sullo scoglio’: ‘oggi sento | la mia immobilità come un tormento’.

La scomparsa di Clizia, quindi, è indipendente dalla volontà dell’io e si pone come un gesto deliberato (‘mi salutasti – PER entrar nel buio’, con evidente finalità), appartenente alla vasta e antica schiera dei rituali ctonii o del sottosuolo: è una descensio ad inferos, non diversa da quella di Persefone nel mito greco, ma necessaria e dunque differente per statuto da coloro che muoiono e vivono la morte come condanna (nel testo ‘Gli orecchini’, si dice ‘ai tuoi lobi squallide | mani, travolte, fermano i coralli’, dando l’idea di chi si immerge sua sponte in una palude e ne è avidamente risucchiato, come per invidia dei morti verso la vita).

Ma la morte di Clizia è rituale, realizzata e codificata per un fine specifico, quello di raggiungere una resurrezione angelica, di farsi cosa al di sopra degli uomini per condurli oltre, all’interno di un quadro che ha qualche connotato stilnovista, tra i rimandi a Petrarca o alla Beatrice angelicata della Commedia (non a caso Montale considerava la plaquette Finisterre il suo momento petrarchesco).

Clizia da persona diventa ideale, e lo capiamo osservando la strofa in parentesi che pone un distacco netto tra interno ed esterno. Esterno dove infuria la bufera che sgronda e schianta in un paesaggio naturale di tempesta, e l’interno, sobrio e silenzioso dove Clizia ancora risiede, incarnando la Cultura e la virtù umana che la guerra sta negando. Il dettaglio prezioso de ‘l’oro | che s’è spento sui mogani’ racconta dell’ultima lama del tramonto ormai svanita, l’unico elemento di contatto tra le due dimensioni spaziali e storiche, ma decreta anche l’impossibilità di una comunicazione.

In tutto questo, naturalmente, sta poi la superiore abilità tecnica di Montale che voglio evidenziare in un punto esatto. A partire da ‘e poi’, si ha un crollo linguistico e fonico, un’accelerazione improvvisa, ricolma dei suoni duri dei correlativi della guerra (grandine, sistri, fandango, quando sappiamo bene che le danze sono sempre in accezione negativa per Montale) che pure scorrono via setosi, come se fossero inscritti in un ritmo universale e non ci fosse altro modo per sistemare le parole, per dire quelle cose.

Il tutto poi si ferma subito, con quel ‘e sopra’, attraverso la simmetrica costruzione di ‘e + avverbio’.
Questo spazio di versi, inoltre, fa da pendant alla stasi, o meglio al fermo immagine del ‘lampo che candisce’ e illumina per un solo istante, mostrandola, la realtà della storia e la realtà di Clizia che appare per l’ultima volta come silhouette, ovvero come icona.

LA FRANGIA DEI CAPELLI, O L’ASCESA /

La frangia dei capelli che ti vela
la fronte puerile, tu distrarla
con la mano non devi. Anch’essa parla
di te, sulla mia strada è tutto il cielo,
la sola luce con le giade ch’ài
accerchiate sul polso, nel tumulto del
sonno la cortina che gl’indulti tuoi
distendono, l’ala onde tu vai,
trasmigratrice Artemide ed illesa,
tra le guerre dei nati-morti; e s’ora
d’aeree lanugini s’infiora
quel fondo, a marezzarlo sei tu, scesa
d’un balzo, e irrequieta la tua fronte
si confonde con l’alba, la nasconde.

C’è un elemento di capfinidad (cioè di ripresa testuale) fra questa poesia e la precedente, ed è proprio la fronte di Clizia coperta dai suoi capelli. In ‘La bufera’, infatti la fronte era sgombra dalla nube dei capelli mentre qui è l’io a suggerire di non spostare i ciuffi.
Le situazioni sono diverse ma assistiamo alla stessa scena. Anche se lì Clizia era ritratta un istante prima di cominciare il suo rito, il dettaglio della fronte e delle nubi preannunciava la sua ascesa in forma di angelo: e questo dettaglio, qui, si mantiene, nonostante la trasformazione sia finalmente avvenuta. Come se l’io volesse mantenere un barlume di umanità nella sua donna attraverso un gesto di delicatezza e tenerezza quasi infantile: e non a caso, la fronte di Clizia è ‘puerile’.

È in questo testo che si realizza la parabola evangelica di morte e resurrezione che conduce Clizia dal suo amore verso l’uomo all’amore verso gli uomini e il loro destino, in una chiave soteriologica per cui essa diventa davvero dea ‘trasmigratice’, priva dei connotati terrestri e capace di azioni miracolose (come l’infiorarsi di un campo, marezzato, cioè accarezzato dalla dea alata che discende sulle cose da un nido che non è più una camera ricolma di libri, ma infine ultraterreno).

Il passaggio dal terrestre all’angelico è totalizzante, assoluto (com’è tipico dell’assenza di proporzioni tra l’umano e il divino) ma è descritto in termini che indugiano ora nella sfera pagana (non è casuale il rimando ad Artemide, dea lunare e dea trina, insieme delle sue controparti Selene ed Ecate, quest’ultima divinità notturna, dei fantasmi e dei morti e colei che si accorge del rapimento di Persefone da parte di Ade…), ora in quella cristiana, che dispiega tutta un’attitudine messianica volta alla salvezza e al perdono (l’angelo Clizia è infatti capace di ‘indulti’, pur operati nel sonno, luogo per il momento ancora liminare tra realtà e visione).

Nell’unione di questi due elementi religiosi non dovremmo però nemmeno trascurare l’unione panica col paesaggio: Clizia infatti ‘è tutto il cielo’, ben prima e oltre il fatto che il cielo si rifletta nella strada dell’io, cioè nella sua vita di individuo. Con il paesaggio Clizia si sovrappone per sovrastarlo: non è solo l’alba, luogo per eccellenza in cui si concentrano desideri e speranze già dalla tradizione provenzale, è più dell’alba, al punto che ‘la nasconde’. Una visione del genere, tipica di un dio-natura o di una religione panteista, riassorbe in sé la lettura pagana e cristiana, ponendosi come uno sfondo più ampio.

Una menzione meritano le ‘giade ch’ài | accerchiate sul polso’, un riferimento prezioso agli accessori femminili in perfetta accoppiata con l’interno di mogano della poesia precedente e che rimarcano quel gusto autunnale e “decadente” per gli oggetti in Montale: talismani e amuleti che smettono di essere simboli in luogo del potere di Clizia ma ne diventano, piuttosto, catalizzatori e amplificatori, quasi fossero le insegne del santo (nella stessa raccolta altri dettagli minuti si possono ricordare in ‘Di un Natale metropolitano’ con ‘i tuoi ricci bergère’ o in ‘Piccolo testamento’ quando l’io dice ‘conservane la | cipria nello specchietto’).

D’ora in poi, nella raccolta, Clizia non verrà meno mai alla sua natura divina e alata e proverà a svolgere il suo compito di salvezza nei confronti dell’uomo. L’io la canterà sempre in questa veste, perderà la fede, si rivolgerà a numi terrestri, ad altri astri, sostituirà i suoi occhi con quelli di altre ma non la dimenticherà mai.
L’eco di Clizia non è mai spenta, fosse anche per ricordarne l’antica grandezza in farsa e parodia. Ma la sua fine coincide soltanto con l’ultima parola vergata da Montale.

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