La perfezione non appartiene a questo mondo. Questa frase l’abbiamo già sentita da qualche parte. E ognuno ci ha sempre aggiunto le eccezioni che riteneva più opportune. Ma il concetto alla base resta: la perfezione non è di questo mondo perché appartiene a Dio, quindi gli uomini per quanti sforzi facciano, non potranno mai raggiungerla. Arrivare alla perfezione vorrebbe dire arrivare a Dio.
Date queste premesse, ha senso parlare di “perfetto”? Naturalmente no, perché tutto è opinabile a meno che Dio in persona, barba e triangolo lucente in testa, non si riveli al mondo ed esprima la sua posizione in merito. Ma nell’attesa di ciò, cerchiamo almeno di definire un parametro, una unità di misura che possa stabilire “di quanto” ci si avvicina alla perfezione.
LA SEZIONE AUREA
Nella Repubblica di Pisa, intorno al 1170, nacque Leonardo Pisano, successivamente detto il Fibonacci. Considerato uno dei più grandi matematici di tutti i tempi, fu tra quelli che avrebbe contribuito alla rinascita delle scienze esatte dopo la decadenza dell’età tardo-antica e dell’Alto Medioevo. Rappresentò il “ponte” in Europa, fra i procedimenti della geometria greca euclidea e gli strumenti matematici di calcolo elaborati dalla scienza araba. Non uno qualsiasi, insomma. Nel suo Liber Abaci del 1202, il buon Fibonacci studiò la riproduzione dei conigli. Il matematico spiega che i conigli divengono fertili nel loro secondo mese e procreano costantemente una coppia di conigli ogni mese. Da tale esperimento emerge quindi la seguente progressione numerica delle coppie di conigli, in cui ogni numero relativo a un dato mese (numero di conigli in vita) corrisponde alla somma dei due numeri dei due mesi precedenti (conigli già in vita più nuovi nati da ogni coppia). È la celebre sequenza di Fibonacci, appunto: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21. Secondo lui in natura esiste sempre una sequenza numerica tendente all’infinito da cui è ricavabile la sezione aurea, un numero irrazionale da cui è possibile ricavare un ordine geometrico in ogni cosa. Ossia, la dimostrazione dell’intervento di Dio in natura.
IL MOMENTO DI SVOLTA
Un concetto che è stato utilizzato spesso nell’arte (il pianista Claude Debussy), perché legato all’idea dello Spirito che regola e conferisce alla materia un ordine superiore, dandole connotati divini. La perfezione di cui sopra, della quale l’uomo è sempre stato alla ricerca. Proviamo allora ad approdare a un compromesso: se è impossibile dare una definizione della perfezione in quanto materia divina, possiamo almeno provare a capire quale sia la direzione per arrivarci. Una direzione nella quale si sono incamminati quattro tizi di Los Angeles, il cui viaggio venne metaforicamente raccolto in un disco. Ci sono momenti di svolta nella storia della musica. Questo di solito succede quando qualcuno cambia le regole del gioco e costringe tutti gli altri a adeguarsi. E’ successo quando Mozart si è seduto per la prima volta al piano, quando il mondo ha ascoltato il White Album dei Fab Four o quando ha visto Jimi Hendrix suonare. Ed è successo anche il 15 maggio del 2001, quando i Tool hanno pubblicato il loro terzo disco, Lateralus.
TRA REALE E NON REALE
Il titolo deriva dalla contrazione di Vastus Lateralis (Il muscolo vasto laterale della gamba) e pensiero “laterale”. L’album si muove sul confine fra reale e non, fra ciò che tiene l’umano ancorato alla terra (la sua natura organica) e ciò che lo eleva ad un livello superiore, la conoscenza delle leggi matematiche dell’universo. Esse sono uniche ed invariabili, e permeano tutto il conosciuto. Lateralus è il passo successivo, è una scientifica iniziazione all’occulto, un dispiegamento nitido e razionale delle arti magiche che ti imprigionano come un incantesimo. Come Menenio Agrippa, Alberto Magno, il principe Raimondo di San Severo, Isaac Newton e altri filosofi o menti eccelse, fautori di una conoscenza esoterico-alchemica della natura. Sul libretto dell’album non vi sono incisi come di consueto i testi dei brani ed altre notizie relative alla produzione, ma è stampata su sfondo trasparente la figura di un busto umano. Man mano che si sfogliano le pagine si penetra al suo interno così da vedere in successione i muscoli, lo scheletro, gli organi. Alla fine, si trova la chiave di accesso al mondo spirituale. Nel penultimo strato del busto, all’interno del cervello vi compare la parola “God”.
VERSO LA PERFEZIONE
Lateralus è un viaggio alla ricerca dell’esistenza di Dio, dunque della perfezione. Il disco precedente, Aenima, capolavoro del post-grunge anni ’90, era più legato alla forma-canzone, sebbene bordi e confini fossero già sfilacciati e dilatati all’estremo. Quel lavoro aveva già una connotazione liquida, una sorta di creatura amorfa tra prog e crossover metal. Qualcosa di eccezionale: ma Lateralus segna un punto di non ritorno, e non soltanto per i Tool stessi. E’ il punto di congiunzione tra gli echi del Prog dei King Crimson e tutto il metal del ventennio precedente al duemila. La sintesi che ne viene fuori è qualcosa di mai ascoltato prima, e non soltanto grazie alla maestria mai barocca del quartetto californiano. Ritmi infernali, tempi dispari, progressioni armoniche e perfetta sincronia di tutti gli strumenti. Echi di industrial, hard core, metal. Vocalità possente e claustrofobica, chitarre distorte, tamburi selvaggi, linee di basso magnetiche e incalzanti. Tutto, all’interno dell’album, è predisposto secondo la più rigorosa delle disposizioni geometriche. Ogni cosa è calcolata ed elaborata, tutto viene incastonato con una precisione certosina. Non c’è spazio per l’improvvisazione.
L’UNIVERSO DEI TOOL
Lateralus è un’opera mastodontica che mette completamente fine alla forma canzone-classica, che archivia definitivamente grunge e metal e passa alla pagina successiva. Un viaggio che inizia con il tremendo incalzare di The Grudge, passa per l’intermezzo sonoro dell’acustica distorta di Eon Blue Apocalypse e introduce The Patient, brano che richiama i Pink Floyd. Dopo Mantra, miagolio di un gatto rallentato all’infinito, parte il basso angoscioso di Schism, lenta nenia che rappresenta il cuore dell’universo claustrofobico dei Tool. Una perfetta simmetria di intrecci, variazioni di ritmo, esplosioni di rabbia. Tutto condensato in totale armonia fino al sabba finale che travolge ogni cosa. Il motivo ricorrente è la quadratura del cerchio, l’irrisolvibile problema matematico che ci riporta alla vita umana e alla difficoltà di comunicare. I know the pieces fit because I watched them fall away è una perfetta sintesi della distruzione non voluta di un amore, di una relazione, di un affetto, o di una parte della propria vita.
DAL CONFLITTO ALL’EQUILIBRIO
Il successivo binomio Parabol/Parabola è lo specchio del conflitto interiore che lacera l’uomo. Dall’atmosfera spirituale della prima parte, ipnotica e quasi ascetica, si passa al sussulto di una creatura indemoniata. Un muro sonoro accompagnato dalla voce di Maynard Keenan che sa essere rabbiosa e angosciante al tempo stesso. Ma l’alternanza ed il conflitto ora lasciano spazio alla pura rabbia di Ticks and Leeches. Un mondo di percussioni incattivite, di riff metal e di batteria impazzita. Keenan urla tutto il suo malessere e la sezione ritmica crea un muro di suono di rara potenza. Secondo Onda Rock, il brano è l’apice creativo del batterista Danny Carey, il suo trionfo. E’ un viaggio nella rabbia recondita di ognuno di noi, una canzone assolutamente tremenda. Infine, il brano dell’equilibrio che dà il titolo all’album. Con Lateralus il viaggio approda alla sua meta, perché l’uomo trova la sezione aurea nella natura, quindi approda al Divino. Una intro impercettibile di chitarra e batteria, che, crescendo, si trasforma, sbocciando in un riff di ampio respiro per poi calarsi nuovamente in ritmiche serrate. La camaleontica voce di Keenan e la chitarra di Adam Jones condensano grunge, accelerazioni punk-hardcore e un massiccio uso di effetti.
LA SEQUENZA DI FIBONACCI
E infine, le liriche. Il testo è sillabato in modo da ricreare la sequenza di Fibonacci in forma di spirale. “Black (1) / then (1) / white are (2) / all I see (3) / in my in-fan-cy (5) / red and yel-low then came to be (8) / rea-ching out to me (5) / lets me see (3) / as be-low, so a-bove and be-yond, I i-ma-gine (13) / drawn be-yond the lines of rea-son (8) / push the en-ve-lope (5) / watch it bend (3)”. Il genio del matematico pisano risorge tra riff di chitarra e potenti combinazioni basso/batteria. Lateralus, per via della sua struttura, può essere considerata la sezione aurea dell’intero album. È il momento in cui l’entità spirituale si manifesta nell’opera d’arte attraverso la spirale, forma di equilibrio in quanto finita ed infinita, razionale ed irrazionale, materiale e spirituale. La spirale è una forma geometrica ordinata derivata da un calcolo matematico, ma elude la razionalità perché tende all’infinito. Si può vedere ma non si può raggiungere, si contempla ma non si afferra. Come la perfezione, come Dio. L’osmosi tra i due mondi si sta dunque compiendo, l’individuo ha acquisito la consapevolezza del sè attraverso il suo viaggio interiore. “Spiral out, keep going“, recita il testo. Le angosce e le paure si risolvono in essa: ora la vita va avanti.
LA FINE DEL VIAGGIO
La prima parte ha narrato del conflitto tra perfezione matematica e umana, la seconda ha conosciuto le leggi dell’Universo, la terza parte del disco analizza ciò che fu prima e ciò che sarà. Disposition, lenta ballad di tamburi tribali, in cui la frase “I watch the weather change” viene ripetuta come la calma prima della tempesta. Reflection riprende le percussioni e ne aumenta la eco, in una suite di dieci minuti che è fra le più belle dell’intero album. Parla di contatti con civiltà aliene, di ciò che è al di sopra dell’umanità e di ciò che ci sarà ancora dopo, le stelle. Un senso di grande pace interiore, anche nei momenti meno controllati, aleggia in questa fase. Niente rancore, solo una rassegnata meditazione. Triad è la fine del sogno, le chitarre si risvegliano e con esse il furore metal. Un vero e proprio inabissamento nella psichedelia più terribile e recondita, in un mare di controtempi e di riff cupi e possenti. Poi, Faap de Oiad, “la voce di Dio” in islandese. Ed è la disturbata (da chitarra distorta) trasposizione della conversazione, avvenuta fra un radiocronista ed un ascoltatore che telefonò asserendo di essere un dipendente dell’Area 51. E che gli alieni si erano infiltrati tra noi.
Settantotto minuti che hanno cambiato per sempre la musica. L’alba del nuovo millennio ha salutato un capolavoro con il quale un ventennio successivo di musicisti ed artisti ha dovuto per forza confrontarsi. I Tool hanno riscritto le regole del gioco. Siamo ancora sicuri che la perfezione non appartenga a questo mondo?