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Rock or dust

Il mondo sommerso dello Stoner, il rock del nuovo millennio

«Il rock convenzionale ha continuato nell’opera di sciacallaggio del suo verminoso passato, inaugurando gli anni Zero con un revival garage punk (White Stripes, Hives) e chiudendolo con un assalto senza regole ai decenni passati. Il post-punk anni ’80, lo shoegaze anni ’90, il rock psichedelico anni ’60 e altro. È possibile che siano rimasti tutti simultaneamente a corto di idee?». E’ quanto si chiedeva il critico musicale Simon Reynolds, intorno al 2010, sulle pagine di Rolling Stone. «Perché è così importante che la musica pop sia perennemente proiettata in avanti? Sembra che il pop sia soggetto a una pressione particolare, un fardello storico a cui non sono soggette altre forme d’arte. (…) Forse è tutta colpa dei Beatles. La loro sorprendente esplosione creativa nei quattro anni che vanno da “Rubber Soul” a “White Album” ha posizionato la barra a un livello troppo elevato per i successori».

IL MILLENNIO ZERO

Forse ha ragione lui, forse l’importantissimo contributo dei baronetti di Sua Maestà è un po’ sopravvalutato, ma la questione di fondo resta. I Noughties, gli anni zero del nuovo millennio (per estensione vi facciamo rientrare anche agli anni ’10) sono quelli della grande crisi del rock, e non solo. In estrema (e poco precisa) sintesi, potremmo dire che una volta i decenni segnavano la musica rock, che finiva per rispecchiare e filtrare tensioni e pulsioni sociali. Attraverso il rock era possibile riconosce il contesto storico di cui si parlava, e viceversa. Un rapporto dialettico di continuità e superamento, in cui ogni stilema musicale veniva ripreso e rielaborato dal periodo successivo.

DA ELVIS AI NOUGHTIES

Se gli anni ’50 videro la nascita del rock’n’roll classico, nei ’60 si passò al revival britblues fino alla psichedelia. Attraverso la tempesta dell’hard rock, il prog ed il punk, fino alla new wave ed al metal. Infine, il grunge, ultimo vero sussulto invero durato soltanto metà decennio. Grandi insiemi, contenitori di una infinita varietà di quelli che potremmo impropriamente definire “sotto-generi”, di certo figli della loro epoca e dei cambiamenti sociali che attraversavano il mondo occidentale. Poi, il 2000 (o meglio, il 2001, ma ormai è andata così). «Negli ultimi anni – conclude Reynolds – la nostra fiducia nel cambiamento è stata messa a dura prova dalla rinascita dei fondamentalismi, dal riscaldamento globale, dal risorgere di divisioni razziali e sociali, dal crollo del sistema finanziario mondiale determinato dal buco nero del credito. Se tutto attorno a noi sta subendo un’inversione di tendenza, perché il caro vecchio pop dovrebbe restarne immune? Forse è questa la ragione del prevalere di una diversa nozione di musica: non più le ripetute, violente emozioni dell’innovazione, ma la forza della continuità, fondamento di stabilità in un mondo precario». Reynolds considera il rock come “sottocategoria” del pop: ci permettiamo di non essere d’accordo, visto che la matrice del rock è da ricercare nel blues, ma ciò che conta adesso è capire quanto hanno (o non hanno) da dire i Noughties.

DECLINI E TENDENZE

L’inizio del duemila ha visto il progressivo declino di molti gruppi e tendenze in voga nei tardi anni Novanta. Basti pensare ai Radiohead, progressivamente diventata una band di midi-file, ai Green Day ed ai Queens of the stone age, per non parlare dei Metallica o dei Rem. Mentre ci teniamo stretti, a onor del vero, gli esordi dei Muse, i Wilco ed il folle talento blues di Jack White. Sono stati anni caratterizzati dal suffisso “post-“, quasi a voler rimarcare la mancanza di una identità propria e originale. Il post-grunge, dominato da Foo Fighters, Audioslave e Velvet Revolver (roba buona, comunque). Il post-punk/indie di Franz Ferdinand, Arctic Monkeys, Editors, Interpol e compagnia. Per non dimenticare la terribile scena nu-metal, scatenata dalla caduta dei Korn, dal sopravvento dei vari Limp Bizkit, P.O.D., Papa Roach, Linkin Park e affini (facciamo salvo Toxicity dei System of a Down). Per tacere dei gruppi ad uso e consumo esclusivamente adolescenziale, come i terribili Tokio Hotel che tanto successo hanno avuto anche in Italia. Esiste, ed è fortunatamente valido, un movimento post-metal, arricchito nel sound e nel song-writing, con molti elementi prog. Basti pensare ai mastodontici Tool (leggi anche qui), ai Porcupine Tree, The Mars Volta, Opeth e Meshuggah.

COSA RESTA DEI DUEMILA

Ma quelli che ancora oggi (pandemia permettendo) riempiono stadi e arene sono pur sempre i “grandi vecchi”, che seppur a volte ripetitivi nei dischi, sono gli unici in grado di spiegare ai giovani musicisti come si tengono in pugno 80mila persone imbracciando una chitarra e un microfono. Cosa ci prendiamo, allora, noi nostalgici rockettari duri e puri, dei primi vent’anni del nuovo secolo? La scena nordeuropea e l’infinito universo a stelle e strisce sono ricchi di artisti che ricalcano l’epopea 60/70. Qui, in un mercato non ancora del tutto dominato dai talent-show e dalle grandi etichette, dove c’è ancora spazio residuo per le piccole produzioni, il rock sopravvive. Nei club, nei festival per amanti del genere, nelle città che hanno tanti spazi per la musica dal vivo (cosa difficile da trovare in Italia). Ma c’è di più, e soprattutto, di nuovo.

LATTE E BLACK SABBATH

California, inizio degli anni ’90. A Palm Spring i Kyuss edificarono le fondamenta del Desert Rock, il cui verbo è ancora oggi diffuso dal suo gran sacerdote, Brant Bjork (ascolta qui l’ultimo disco). Nello stesso momento, sulla sponda meridionale della Baia di San Francisco, a San Josè, qualcun altro gettava le fondamenta del multiverso parallelo dello Stoner Rock. Volume One (1991) e Sleep’s Holy Mountain (1992): i primi due lavori degli Sleep, band californiana cresciuta a latte e Black Sabbath. I ritmi cadenzati del Desert rock si fondevano con il lento e tenebroso incedere del Doom metal, in una destrutturazione della forma canzone classica che soltanto il Prog aveva sperimentato in passato. Ed il terzo disco rappresentò al tempo stesso la fine della band e l’inizio di una nuova era. Una volta firmato il contratto con la London, il gruppo cominciò a lavorare al terzo album, Dopesmoker, nel 1995. Per lo sgomento dei discografici, il lavoro era composto da una traccia unica, della durata di più di un’ora. L’etichetta dichiarò che l’album era semplicemente invendibile e si rifiutò di pubblicarlo. Gli Sleep tornarono in studio e inviarono così una seconda versione: il disco venne re-intitolato Jerusalem, parte del testo fu rivista e la musica fu ridotta a “soli” cinquantadue minuti. In sostanza, era quasi lo stesso album. La London Records rifiutò ancora una volta la pubblicazione e gli Sleep, a causa della frustrazione e della difficile situazione, si sciolsero.

UNA PIEGA INATTESA

Ma qui la storia prende una piega del tutto inattesa. Perché quel disco diventa la pianta germinale di un albero che continua a crescere tutt’oggi, in differenti direzioni: lo Stoner. Nato dal Doom, fratello del Desert Rock, si espande all’infinito, in tutto il mondo, prendendo differenti direzioni. In maniera sommaria e forse poco esaustiva, potrebbe definirsi come l’incontro tra il Doom Metal e il Prog. I progenitori dello Stoner rock condividevano il consumo di marijuana, da cui deriva il nome “stoned” (allucinato, fumato). Ma le sonorità acide e psichedeliche sono soltanto alcune delle galassie di questo universo, che corre parallelo al Desert di Kyuss, Fu Manchu, Hermano e Slo Burn, ma più di esso riprende le strutture del Prog. Niente più forma canzone classica, lunghe suite e virtuosistiche parti strumentali.

GALASSIA IN ESPANSIONE

Il gruppo che forse meglio ne ha riassunto le caratteristiche sono i tedeschi Colour Haze, che prima di altri si sono contraddistinti per un certo allontanamento dal Doom e un avvicinamento ad un hard-prog di eccelso livello. Su questa stessa radice possono essere inseriti due gruppi favolosi come gli americani Elder e All Them Witches, pure se molto diversi tra loro (una delle principali caratteristiche dei gruppi Stoner). Più fedeli al versante metal Wo Fat, Orange Goblin e Karma to Burn, più puramente “doom” Acid King, Electric Wizard o Acid Mammoth. La psichedelia fa capolino nei lavori dei greci Naxatras, degli argentini Iah, degli olandesi Sungrazer, dei francesi Stone Rebel. Non mancano addirittura commistioni tra atmosfere dure e free jazz (Mhityc Sunship dai fiordi danesi) e richiami all’hard blues (i tedeschi Samsara Blues Experiment). Insomma, da tutto il mondo. Senza dimenticare (ma è impossibile non dimenticare qualcuno…) gli orientaleggianti e onirici My Sleeping Karma e Om. Ma se volete un perfetto cross over tra Desert e Stoner potreste ascoltare Riffdelic o Riff desert degli Stone Age Mammoth.

IL LINGUAGGIO UNIVERSALE

Una galassia in espansione, che abbraccia tutto il mondo e non conosce differenze geografiche e culturali. Come se in varie parti del globo ci si fosse improvvisamente riappropriati di un linguaggio musicale quasi dimenticato, che non fa vendere milioni di dischi e non porta ai Talent-Show. Ma che non muore. Un percorso che ogni vecchio amante del prog e del rock sotto ogni sua forma, dovrebbe fare almeno una volta nella vita. Questi nomi sono soltanto delle punte di iceberg del mondo sommerso e tutto da scoprire dello Stoner. Ecco, noi ci prendiamo questo, dai primi vent’anni del nuovo secolo. E ce lo teniamo stretto.

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