Se non avesse incantato platee e donne con i suoi trucchi applicati alla pelota, probabilmente, Diego Armando Maradona avrebbe fatto la rivoluzione.

E il suo gol del siglo, magari, l’avrebbe segnato per porre fine al delirio del Generale Galtieri, che mandò al fronte i suoi connazionali in un’avanzata alle Malvinas che si trasformò in un bagno di sangue enorme. L’avversario? L’Inghilterra, manco a dirlo.

Sempre dalla parte degli emarginati, dei più deboli, lui, che la corte dei miracoli dalla quale è venuto non l’ha mai dimenticata. Ha sfidato le istituzioni, caricando sulle sue spalle il peso di un’intera squadra. Spesso le ha sconfitte. Ha portato la gioia nelle vite di chi aveva un pallone e poco più.

La frase più bella su di lui l’ha detta Guardiola: non importa ciò che ha fatto alla sua vita, importa quel che ha fatto alle nostre. E, aggiungiamo, a quelle di chi in lui ha trovato la forza per un riscatto atteso da tempo.

Il ricordo di Florent Torchut

Il nostro viaggio tra i ricordi legati al Pibe de Oro inizia con una bellissima chiacchierata con Florent Torchut, giornalista di L’Equipe e France Football. Per la rivista che annualmente assegna il Pallone d’Oro ha realizzato l’ultima intervista rilasciata da Diego:

Il primo ricordo che ho di Diego è quello del mondiale del 1994, con Caniggia e Batistuta, che era il mio massimo idolo, ma Diego per me era più di un calciatore.

Quando l’ho visto per la prima volta a Buenos Aires, ero corrispondente per l’Equipe e France Football in Argentina, durante l’allenamento della nazionale argentina. Aveva finito l’allenamento ed era venuto in sala per la conferenza stampa. Quando lui comparve nella sala stampa tutti i presenti erano stupiti. Ricordo molto il silenzio e l’ammirazione per lui. Era come il Sole che splendeva e tutta la gente era affascinata da lui. Aveva un carisma grandissimo, quando parlava era impressionante.

Poi non l’ho visto per molti anni. Ho sempre desiderato fare un’intervista con lui perché per me era il più grande della storia, un idolo del secolo passato, come Papa Giovanni Paolo II, come Michael Jackson, una delle persone più conosciute del secolo scorso, anche più ammirata e popolare per la gente povera. Diego lo conoscono tutti: in Africa, Asia, America. È un idolo universale.

Ho avuto la grande fortuna e la grande possibilità di fare questa intervista con lui, perché per France Football abbiamo fatto un’edizione speciale per i suoi sessant’anni. Diego aveva un legame molto forte con France Football, che ha dedicato a lui molti articoli, fin dagli esordi con l’Argentinos.

Ho parlato molte volte con i suoi agenti, con la sua famiglia, ma era sempre impossibile farne una. Ho lavorato, ho provato, ma era molto difficile, perché poi è andato a Dubai, dopodiché in Messico, ma finalmente, per l’edizione speciale su di lui, un avvocato che lavorava con Maradona mi disse che sarebbe stato possibile fare qualcosa.

Ci furono molte chiamate, molti messaggi, ho parlato ogni giorno per due mesi con il suo entourage e successivamente con la sua ex moglie. Fino a quando mi ha detto “possiamo fare l’intervista adesso”.

Ho preso subito il telefono e fu un momento straordinario, Diego si è mostrato molto simpatico con me, ha raccontato tanti bei ricordi ed è stato realmente straordinario. Abbiamo parlato dodici minuti, che possono sembrare pochi, ma è anche un momento impressionante, perché lui non parlava molto con i giornalisti stranieri. Per questo è un onore e un piacere immenso aver fatto questa intervista.

Mi ha detto due cose che mi sono sembrate molto forti: che il suo più grande orgoglio è aver regalato felicità alla gente giocando a pallone e l’altra è che il regalo di compleanno che avrebbe voluto per i suoi sessant’anni era quello di segnare all’Inghilterra con la mano destra” (ride, ndr).

Per me la cosa più impressionante di Diego è che lui, quando ho vissuto a Buenos Aires, già non era più un giocatore, ma era molto presente. Quando parlavo con gli argentini, parlavamo sempre del peso e dell’importanza di Diego non solo nel calcio, ma anche nella storia dell’Argentina.

Tutti avevano un ricordo speciale di una partita, con la nazionale, in un mondiale. È anche molto presente nelle strade di Buenos Aires, in particolare nel quartiere del Boca ci sono molti graffiti dedicati a Maradona, nei negozi ci sono sempre maglie di Diego con il numero dieci.

Tutti parlavano di lui chiamandolo semplicemente Diego, senza specificare “Maradona”, così come per le due figlie Dalma e Gianinna e la prima moglie Claudia. Sapevamo sempre che si trattava di loro. Perché Diego è stato parte della famiglia e della vita di tutti gli argentini”.

Il ricordo di Juan Carlos Unzué

Juan Carlos Unzué, portiere del Siviglia dal 1990 al 1997, ha così ricordato il suo ex compagno di squadra:

Ricordo, anche al di sopra delle sue capacità calcistiche, le sue capacità umane. Era una persona molto generosa e sincera con i suoi compagni. Si assumeva sempre la responsabilità dentro e fuori dal campo, soprattutto se doveva reclamare o chiedere qualcosa.

Personalmente ho imparato molto da lui e gli sarò sempre grato. Una delle cose che mi è stata molto chiara è quanto fosse difficile essere il migliore, il numero uno in uno sport come il calcio. Ovunque tu sia Diego, ricevi un enorme abbraccio da un amico. Grazie di tutto“.

La partita che non dimenticherà mai? Quella contro lo Sporting Gijon, in cui Diego fece gol così:

Il ricordo di Darwin Pastorin

Darwin Pastorin è una delle penne più apprezzate del mondo del giornalismo sportivo italiano. All’epoca, era cronista per TuttoSport ed era presente sull’aereo che portò Maradona da Barcellona a Napoli:

Ho avuto la fortuna di conoscere Maradona e di seguirlo quando ero cronista a TuttoSport durante le sue stagioni al Napoli, la breve parentesi al Siviglia e alcune partite con l’Argentina. Era una persona istintiva, senza maschera, mai reticente.

C’ero anch’io in quell’estate del 1984 sull’aereo che portava Diego da Barcellona a Napoli. Ricordo un campione di 24 anni, felice di affrontare la sua nuova avventura, così carica di sogni, attese, speranze. Lo intervistai e gli chiesi: “Come farai a superare la nostalgia per Buenos Aires?”, mi rispose con quel suo sorriso a girasole: “mi basterà spalancare la finestra e guardare il mare di Napoli”.

Ho visto Diego giocare, compiere prodezze abbaglianti e impossibili, perdersi e ritrovarsi, diventare un canto popolare, un inno alla felicità e al domani. Riscattare gli umili, gli emarginati, gli invisibili, il sud del mondo. Per me è stato il Borges de la pelota. Diego nei suoi labirinti, con i suoi universi paralleli. Diego con la sua infinita poesia. Il più grande di tutti, sempre e per sempre“.

Il ricordo di Francesco Repice

Francesco Repice, voce principale di “Tutto il calcio minuto per minuto” e cronista ufficiale della Nazionale Italiana, ha ricordato un simpatico momento che vide protagonista anche Giampiero Galeazzi:

Eravamo ai quarti di finale tra Italia e Francia nel 1998, alla vigilia di questa partita, una mezz’ora prima dell’inizio della partita, arrivò Maradona con il suo clan e i bodyguard e i membri della sicurezza non lo facevano passare. Galeazzi si arrabbiò e andò a chiedere se avessero capito chi fosse. Fece un casino tale che alla fine passarono tutti e andarono a sedersi in tribuna. Ecco, ricordo questo piccolo aneddoto, l’unico che ho visto direttamente“.

E sui gol che l’hanno impressionato di più:

Secondo me i gol che ha segnato contro la Lazio a Napoli. Uno su calcio d’angolo, non ha senso, un altro fu un errore della difesa e il terzo fece un pallonetto quando la palla andava verso il fallo laterale.

Correva in laterale, l’ha inseguita, l’ha chiusa con il sinistro dal vertice dell’area e l’ha messa sotto l’incrocio dall’altra parte. Lì è una roba senza senso, assolutamente senza senso, più ancora del gol del siglo e del calcio di punizione alla Juventus.

Ce n’è stato un altro col Boca che mi ha molto impressionato, simile a quello segnato contro l’Inghilterra, però quello segnato alla Lazio al povero Nando Orsi è stata una cosa senza senso

Il ricordo di Alessia Bartiromo (giornalista di Teleprima e CasaNapoli.net, co-autrice di “Interrompo dal San Paolo”)

La prima cosa che un tifoso del Napoli o qualsiasi appassionato di calcio ti dice appena comunichi di essere nata nel 1986 è: “Che peccato, ti sei persa le prodezze di Diego Armando Maradona”.

Eh sì, è proprio questo il più grande e forse unico rimpianto inconsapevole della mia vita, essere troppo piccola in quegli anni per ricordarmi vividamente di tutta quell’immensa magia. Eppure, qualcosa di unico mi sarà dovuto restare nel cuore, impresso negli occhi, nell’esplosione dei colori delle bandiere con il tricolore, negli odori, nei sorrisi della gente, nei cori, nelle immagini alla tv.

È proprio questo mix letale d’amore partenopeo che ha fatto scattare la magia ed ancora la instilla in ogni generazione che ama il calcio.

Eh sì, Diego unisce tutti, grandi e piccini, napoletani e stranieri, tifosi di ogni credo, età, ideologia che lo hanno invidiato, osservato, seguito, ascoltato. Per me ha rappresentato tanto: un punto di riferimento nella dorata giostra del Fùtbol, un motivo di orgoglio partenopeo, un leader che seppure sia arrivato da lontano, ha capito subito l’unicità di Napoli e dei napoletani, con tutti i loro limiti, paure, pregiudizi subiti così come luoghi comuni.

Ma non solo: Diego è il ricordo più bello del mio papà quando mi racconta ancora oggi, almeno una volta al giorno, quell’assurdo 5 luglio 1984 al San Paolo e quel palleggio, presagio di un legame destinato a diventare imperituro.

Diego è gli occhi lucidi di mio nonno che ne raccontava le prodezze, è ogni strada di Napoli che lo celebra, è ogni ragazzino che gioca in strada contro gli amici più grandi e li dribbla, senza paura, ma con la voglia di stupire e di invertire ogni gerarchia. Diego è le migliaia di notti passate a guardare e riguardare ogni videocassetta delle sue prodezze, ogni film, ogni video, ogni testimonianza di quel calcio romantico che ormai non esiste più.

Maradona ha segnato in ogni modo possibile la vita di tutti noi che abbiamo avuto la fortuna di nascere a Napoli e di avvicinarci immediatamente al calcio, è il surplus che rende la prima volta all’ormai stadio San Paolo un evento quasi mistico.

“Pensa, lì, in quella porta, Diego ha segnato la punizione più bella della storia contro la Juventus”, quante volte l’ho sentito ripetere ed ogni frase, ogni videocassetta, ogni dribbling, ogni sogno raggiunto ha scandito la mia vita, la mia ossessione per il calcio, persino la mia professione.

Il più umano degli dei, il più divino degli uomini: fragile e sensibile nella sua vita privata, inarrestabile e leale in campo. Un’araba fenice rinata più e più volte dalle sue ceneri, commettendo errori sul suo cammino ed avendo sempre la forza ed il coraggio di porvi rimedio.

Anche questo è stato un grandissimo insegnamento. Ha lasciato un vuoto incolmabile ma ci sarà sempre: in ogni ragazzino che dà calci ad un pallone, ad ogni tifoso innamorato dell’azzurro del Napoli e di Napoli, ad ogni coraggioso che insegue i suoi sogni contro tutto e tutti, osando sfidare la sorte ed il potere solo con caparbietà ed il proprio talento.

Diego è, Diego c’è e ci sarà sempre. In chi l’ha vissuto, in chi l’ha ascoltato, l’ha sognato o solo sfiorato… Ed io, non smetterò mai di ringraziarlo.

Il ricordo di Luca Delgado (scrittore, drammaturgo e insegnante di lingua inglese)

A metà anni ’80 i bambini entravano gratis allo stadio a due condizioni: la prima, che venissero accompagnati da un adulto pagante, la seconda, che la loro spalla non superasse in altezza la transenna divisoria al varco di ingresso.

Questa seconda regola, capirete bene, generava effetti meravigliosi dai risvolti spesso anche comici. Molti ragazzini si presentavano allo stadio da soli chiedendo al primo adulto che incrociavano di “adottarli” per la partita. Lo chiamavano “zio”, un’espressione che è rimasta ancora oggi un rispettoso saluto col quale si cerca complicità istantanea in uno sconosciuto più grande di età. E lo “zio” il più delle volte si prestava a questo capolavoro di improvvisazione teatrale e attraversava con il “nipote” nuovo di zecca il controllo biglietti, una prassi che di fatto trasformava il San Paolo in una gigantesca e moltitudinaria famiglia allargata.

Mio cugino, qualche anno dopo, mi confessò che quando entrava allo stadio passava il controllo facendo domande ridicole, alzava il dito per chiedere “papà che cos’è quello?” indicando magari un lampione, nel tentativo di dimostrare a tutti che fosse davvero un bambino, malgrado l’aspetto fisico cominciasse a tradirlo.

Io invece ricordo con precisione la pressione della mano di mio padre sulla spalla, premeva per abbassarmela, un tentativo anche un poco disperato di farmi perdere qualche centimetro. E io ogni volta lo assecondavo e camminavo tutto storto perché lo sapevo che quella maledetta crescita a un certo punto avrebbe interrotto il sogno, sapevo che due abbonamenti costavano davvero troppo, e speravo con tutto me stesso di non crescere mai.

Il dolore di questi giorni me lo spiego in parte così. Ci bastava essere suoi contemporanei per continuare a sognare. La morte improvvisa di Diego è stata come uno schiaffo di realtà, la fine del sogno. Perché per qualche oscura ragione noi tutti speravamo in cuor nostro di rivederlo giocare prima o poi, anche a 60 anni, anche a 100 anni, la speranza non aveva la misura del tempo. La morte di Diego ci ha come risvegliati e catapultati in una realtà dove tutto quel tempo che ci sembrava in continuità con il presente, ha assunto i connotati brutali di un passato che non tornerà più.

Ci siamo fatti grandi, guagliù, non c’è più trucco che tenga.

Così mi prendo mio figlio in braccio e gli racconto la leggenda di Diego, gli canticchio questa canzone, bisbigliandola mentre dorme con la guancia sulla mia spalla, quella spalla dove ancora sento la mano di mio padre:

y todo el pueblo cantó, “Maradó, Maradó”
nació la mano de Dios, “Maradó, Maradó”
llenó alegría en el pueblo,
regó de gloria este suelo.

Mi consolo al pensiero che faccia bei sogni. Noi ne abbiamo vissuto uno indimenticabile.

Il ricordo di Juan Pablo Luna (Giornalista argentino di Radio Impacto 993, Canal 10 Cba e dell’Instituto ACC)

Nel 1986 si è giocato il Mondiale in Messico e qui in Argentina avevamo sentimenti contrastanti. Venivamo da una dittatura militare e da una guerra nel 1982 con gli inglesi per le Isole Malvinas. E sebbene stessimo tornando alla democrazia, l’inflazione cresceva a dismisura.

Avevo 10 anni e ricordo di aver visto quella Coppa del Mondo su una televisione in bianco e nero. Che aveva un piccolo acquario sopra. Il gol agli inglesi. Vai al campetto e tutti cercano di imitare i dribbling dei 10. Le bandiere argentine e le cacerolas nelle strade dei barrios durante la finale dei Mondiali. Diego ha reso felice la mia umile infanzia. E quella di molti. Dove la pelota era l’unico divertimento.

E il bellissimo ricordo di Italia 90. La canzone di quel Mondiale. Meravigliosa. Il passaggio di Diego a Caniggia. I rigori contro l’Italia. La finale contro la Germania e la caviglia di Diego. Il nostro eterno campione.

Il ricordo di Marcos Javier Villalobo (Giornalista argentino di La Nueva Mañana e Perfil, ex El Gráfico)

Avevo sei anni all’epoca, e la memoria può essere traditrice… Io voglio credere, e spero di non emozionarmi raccontandolo, che andò così: i miei genitori si separarono quell’anno e l’ultima immagine che ho in mente è l’esultanza con i miei fratelli, mia madre e mio padre, abbracciati per il gol di Maradona. Non so se sia reale o no, in testa ho questa immagine, l’ultima immagine in cui siamo tutti insieme.

Maradona mi regalò questo. Al di là dell’aspetto calcistico, Maradona ci regalava questi momenti. La memoria è traditrice, ma io voglio credere che sia stata questa l’ultima immagine che ho e voglio credere che me la regalò Maradona.

 

Ad Alessia Bartiromo, Luca Delgado, Juan Pablo Luna, Darwin Pastorin, Francesco Repice, Florent Torchut, Juan Carlos Unzue e Marcos Javier Villalobo va un sentito ringraziamento da parte della redazione di MentiSommerse.it

Articolo a cura di Corrado Parlati

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