Italia, 1973. Un paese che da qualche anno si era risvegliato dal sonno in cui il piano Marshall l’aveva a lungo cullato. Due anni prima Nixon aveva proclamato la fine del sistema monetario di Bretton Woods, al quale la ripresa italiana post-bellica fu strettamente legata. Il 6 ottobre sarebbe iniziata la guerra del Kippur, e l’Opec avrebbe iniziato ad alzare vertiginosamente il prezzo del petrolio, che raggiunse i 43 dollari al barile nel 1980. E nel 1975 l’Italia sarebbe entrata in recessione diventando di gran lunga il primo paese europeo in quanto a inflazione.
IL BOOM E LA CRISI
Il boom economico aveva trasformato profondamente l’economia e la società italiana. Tra il ’58 ed il ’63 il Pil era cresciuto con un tasso del 6,3% annuo (roba impensabile oggi). Tra il ’55 ed il ’70 un terzo della popolazione cambiò residenza (la grande migrazione dal Sud alle fabbriche del Nord), le città crebbero e i consumi aumentarono. La classe media e il proletariato urbano reclamavano il loro posto nella società. Ma i “nuovi modelli” sociali entrarono ben presto in rotta di collisione con la struttura economica e culturale di un paese ancorato ad altri schemi. E le prime fratture si sarebbero allargate producendo effetti ben più profondi della contestazione giovanile del ’68.
Operai, studenti, donne. Tre fattori deflagranti, che entrarono in conflitto con il vecchio involucro di una Italia cattolica, nella quale la massima trasgressione era ascoltare i “complessi” beat degli anni ’60. Le promesse non mantenute del boom incendiarono le fabbriche, i nuovi costumi giunti da oltremanica e oltreoceano infiammarono le contestazioni del movimento studentesco e femminista. Di contro, una classe politica arroccata sulle posizioni della grande borghesia industriale e conservatrice, e una struttura sociale imperniata sulla famiglia mononucleare, autoritaria e tradizionalista, che rigettava le novità. All’alba degli anni ’70 l’Italia era un calderone sociale bollente. I complessi beat non c’erano più, la lambretta di Vacanze Romane non era nelle possibilità del giovane proletariato urbano, l’aria che si respirava nelle fabbriche e nelle strade era molto pesante.
L’ERESIA DI ROBERT FRIPP
Nel 1969 il rock aveva cambiato volto. Il 10 ottobre di quell’anno i King Crimson davano alla luce In The Court Of The Crimson King (leggi anche qui), da molti considerato il primo vero disco prog-rock della storia della musica. C’erano state altre forme “embrionali” in tal senso, figlie principalmente della psichedelia: basti pensare ai Pink Floyd, ai primi Caravan e ai Soft Machine (leggi anche qui). Ma Robert Fripp aveva dato il via alla rivoluzione. “La mia affermazione del 1969 secondo cui era possibile nel rock richiamarsi alla testa, oltre che ai piedi, causò una sorta di esplosione passionale e fu considerata eretica”. Una volta rotto l’argine, il flusso iniziò a scorrere copioso, almeno fino alla metà degli anni ’70. Vennero i Genesis, gli Yes, i Gentle Giant, Emerson Lake & Palmer, i Van der Graaf, e tanti altri. Erano i figli della borghesia inglese post-bellica.
LA “VIA ITALIANA”
Ma se l’Inghilterra fu la madre del prog, l’Italia rappresentò la figlia più simile al genitore (in alcuni casi anche “troppo”). Molto più degli Usa, della Francia e della Germania, che pure conobbero esperienze simili. Il movimento prog italiano fu di assoluta qualità, tanto da conoscere poi gran successo sia negli Usa che in Giappone. Mentre fu estremamente sottovalutato, quando non del tutto ignorato, dai media dell’epoca. I primi lavori di gruppi favolosi come Pfm, Banco del Mutuo Soccorso o Le Orme riflettono sicuramente l’influenza dei colleghi d’oltremanica, anche se successivamente avrebbero preso una via propria. Ma quello italiano fu un movimento estremamente vasto, nato nei garage, nelle cantine, nelle aule occupate delle università. E mentre il prog inglese era praticamente svuotato di tensione politica, privilegiando testi fiabeschi o introspettivi, quello italiano fu lo specchio fedele di una società lacerata e in conflitto.
UN CURIOSO PARADOSSO
Questo è stato, probabilmente, il motivo che ha generato un curioso paradosso. Il retroterra culturale italiano affonda le radici nel melodramma, nella lirica, nei grandi compositori. Le atmosfere progressive, che destrutturarono la forma-canzone tipica del blues e del rock, finendo spesso per somigliare a vere e proprie opere liriche, finirono probabilmente per risvegliare il Dna musicale di molti italiani. I gruppi britannici, in un primo momento, vennero apprezzati più in Italia che in Inghilterra. Viceversa, molti gruppi italiani dovettero “rifugiarsi” oltremanica o negli Usa per avere successo. E questo molto spesso per l’accentuata politicizzazione di molti gruppi italiani, praticamente banditi dai maggiori canali di diffusione. Ma la gioventù nostrana a cavallo tra anni ’60 e ’70, in particolare nei grandi centri urbani, era assetata di qualcosa di nuovo. Qualcosa che andasse oltre la musica leggera del Festival di Sanremo, che risvegliasse le coscienze e andasse oltre la concezione della musica come mero strumento di intrattenimento o consumo.
DAL BEAT ALL’INTERNAZIONALISMO
La crisi economica e sociale generò tensione e rabbia, ed il compromesso storico Dci-Pci non avrebbe fatto altro che alimentarle. Il 12 dicembre 1970 erano ufficialmente iniziati gli “anni di piombo”: e i gruppi italiani dell’epoca, figli di quelle tensioni, le riportarono nella loro musica. Fino a pochi anni prima imperversavano l’Equipe 84, i Dik Dik, i Camaleonti. Senza dimenticare Adriano Celentano, il Quartetto Cetra, il Trio Lescano, ed il Gianni Morandi di Fatti mandare dalla mamma. Un rock’n’roll rassicurante, in giacca e cravatta, dedito perlopiù a cover e imitazioni varie della British invasion. L’ondata del prog cambiò tutto: le città furono il cuore pulsante di questo nuovo movimento. Da Genova arrivarono i New Trolls, Picchio dal Pozzo e Museo Rosenbach. A c’erano Roma i Banco, Quella Vecchia Locanda e i Metamorfosi, a Milano c’era la PFM. Napoli partorì Alan Sorrenti, i Napoli Centrale, gli Osanna, Bologna i Perigeo. E tanti, tantissimi altri. Adesso l’Italia si confrontava, o meglio evitava di farlo, con l’antimilitarismo, con l’evoluzionismo opposto al creazionismo cattolico, con la questione palestinese, e soprattutto con l’internazionalismo militante degli Area.
UNA NUOVA STAGIONE POLITICA
I puristi del prog sarebbero riluttanti ad inserire l’International POPular Group di Demetrio Stratos in questo novero. Ma d’altronde, sarebbe difficile trovare un contenitore adatto. “Il nostro gruppo – spiegò lo stesso Stratos – vuole coagulare diverse esperienze, jazz, musica mediterranea ed elettronica. Abolire le differenze tra musica e vita, gli stimoli di questo gruppo vengono dalla realtà, e dalla strada”. Obiettivo dichiarato del gruppo era infatti il superamento dell’individualismo artistico per creare una musica totale, di fusione e internazionalità. “Una fusion di tipo internazionalista, prende spunti da varie culture nell’area del Mediterraneo, con dei criteri popolari. Ritmo, temi, e segnali politici”. Erano i figli di un’altra epoca, di una nuova stagione politica che sarebbe durata almeno fino agli inizi degli anni ’80.
L’INTERNATIONAL POPULAR GROUP
Il gruppo venne fondato da Giulio Capiozzo, che voleva suonare in un contesto musicale senza confini ed andando controcorrente rispetto al mercato discografico. Oltre all’incredibile cantante Demetrio Stratos, entrano nel gruppo il tastierista Leandro Gaetano ed il bassista Patrick Djivas, entrambi già con Lucio Dalla. A loro si affiancarono, per la registrazione del primo album, il chitarrista italo-ungherese Johnny Lambizzi e il sassofonista belga Victor Edouard Busnello. Dopo il primo lavoro, Djivas avrebbe lasciato il gruppo per entrare a far parte della PFM, venendo rimpiazzato da Ares Tavolazzi. Andati via anche Busnello, Lambizzi e Gaetano, entrarono nel gruppo Paolo Tofani e Patrizio Fariselli, che definirono la formazione “classica” degli Area. Almeno fino alla morte del povero Demetrio, il 13 giugno 1979.
LA CULLA DEL MEDITERRANEO
Stratos nacque nel 1945 ad Alessandria d’Egitto da genitori greci. Studiò pianoforte e fisarmonica al Conservatoire National d’Athènes, fino all’età di 13 anni. Di famiglia cristiano-ortodossa, fin da piccolo poté assistere alle cerimonie accompagnate da musica religiosa bizantina, oltre ad ascoltare la musica araba tradizionale. La famiglia lo mandò a studiare a Cipro, nel 1957. Nel 1962, il trasferimento a Milano. Purtroppo le giovani generazioni sanno ben poco del movimento prog italiano, degli Area, e dello straordinario talento artistico e vocale di Stratos, che riusciva a produrre diplofonie, suoni bitonali e difonici (canto armonico, meccanismi vocali sovraglottici, fischio laringeo). Abilità diverse tra loro che è raro trovare nella stessa persona. Compì ricerche di etnomusicologia ed estensione vocale in collaborazione con il CNR di Padova tra il 1976 e il 1978, e studiò le modalità canore dei popoli asiatici.
“Io mi offro da cavia per fornire tecnica sul mio mestiere, il mio strumento – raccontò Stratos – non mi chiedo se devo vendere ventimila o centomila dischi o devo prendere tre milioni per sera e andare in giro a cantare. Faccio cose particolari, che si chiudono all’interno di un ambiente particolare: ma non è elitario, c’è un tipo di pubblico composto da musicisti che studiano e che vengono a vedermi. Sai fare una cosa, fornisci materiale e tecniche. All’estero vieni pagato, c’è un pubblico: io faccio concerti per voce sola, cosa che in Italia non esiste. Faccio un lavoro sull’uso della voce, un lavoro sulla lingua, sul linguaggio. Si tratta di uno strumento di cui non si sa niente: quando hai capito come funziona, puoi fare un lavoro non solo tecnico, ma di pensiero, filosofico. Perché si traccia una genesi della voce. Insegno tecniche che appartengono ad altri popoli, ad altri paesi. E’ lavoro scientifico, filosofico ed etno-musicologico. E l’Italia è ancora molto indietro su questo”.
ARBET MACHT FREI
Italia, 1973: esce Arbeit Macht Frei, primo disco degli Area. Il lavoro rende liberi, nel senso che ti libera da ogni angoscia terrena perché ti manda all’altro mondo. Il messaggio è chiaro: come il Nazismo ha annichilito e ucciso, il capitalismo annichilisce e consuma. Più lentamente, ma altrettanto inesorabilmente, ed il risultato alla fine è lo stesso. Il bacino del Mediterraneo da cui proviene Stratos è presente in ogni singolo passaggio del disco, che racchiude anche elementi di free-jazz, pop, elettronica e art-rock. Testi allusivi ed ermetici, ma di chiara posizione filo-palestinese e sempre schierati a sinistra. A questo si aggiungerà l’idea di allegare come gesto provocatorio, all’uscita del disco, una pistola di cartone.
“QUI TI RIDONO IN FACCIA”
Ma l’Italia di allora (e abbiamo grossi dubbi anche su quella di oggi) non era ancora culturalmente attrezzata per capire il prog, ed in particolare gli Area. In un’intervista del 1977 chiesero a Demetrio dei concerti all’estero. “In Spagna, Francia o Portogallo è possibile suonare come Area, come progetto politico. Perché c’è maggiore affinità in quel senso: in Inghilterra o America è praticamente impossibile. Immagina di andare negli Usa, porti “Settembre Nero”, e i discografici sono tutti ebrei…. L’Italiano per la musica ogni anno spende una cifra ridicola: per questo vado fuori, qui non mi chiama nessuno. Qui ci sono molti musicisti che lottano, fanno un lavoro di cantina perché è molto difficile. Alla base c’è la mancanza di educazione: mancano scuole e strutture. Non solo della musica, ma anche delle arti visive: per questo i musicisti vanno fuori ad offrire il loro lavoro. All’estero sanno cosa sia la sperimentazione musicale, fatta nelle università e nei laboratori. Qui ti ridono in faccia, soprattutto nel campo politico. Bisognerebbe spendere di più per la cultura in Italia”.
“Da una parte c’è la musica leggera, i cantautori: dall’altra parte c’è l’egemonia della classica, con miliardi che girano. E in mezzo ci siamo noi. Non siamo una elite, ma insieme ad altri (i Napoli centrale ad esempio) siamo la nuova musica italiana e lottiamo perché non ci sono spazi né garanzie. C’è un pubblico che ha bisogno di cultura, proposte nuove, di essere stimolato dal suono, specialmente questa ultima generazione che è molto critica. E invito i politici a capire questa cosa“. Era il 1977 quando Demetrio Stratos pronunciava queste parole.
QUESTI ERANO GLI AREA: IL GRUPPO PIÙ ORIGINALE DEL PROG ITALIANO
Il Mediterraneo, i suoni dei popoli che vi si affacciano. Gli odori e i sapori bizantini e arabi mischiati. il jazz mittle-europeo, il pop e l’elettronica d’avanguardia. E su tutto, la voce possente di Demetrio. Il disco si apre con una voce recitante in arabo, frutto di una registrazione pirata in un museo del Cairo. Poi irrompe Demetrio: “Giocare col mondo facendolo a pezzi, bambini che il sole ha ridotto già a vecchi” (ascolta qui). Iconici, sovversivi, ricercatori, intellettuali. Uno dei gruppi più importanti, sicuramente il più originale, di quella meravigliosa esperienza che fu il movimento prog italiano. Questi erano gli Area, e lo sarebbero stati fino a quel maledetto 13 giugno.