Forse vien naturale considerare il proprio mese di nascita come il primo del nuovo anno. Per me, ottobre è sempre stato un mese di grandi novità, grandi avvenimenti, grandi decisioni, grandi dolori e grande ri-nascita. Un mese di cose grandi, insomma, sempre. Quest’anno si sono fatte attendere (d’altronde questo è stato un anno di attesa, di cose sospese, di nebbie e visioni, di speranze sempre dis-attese), ma alla fine le ho trovate, le mie cose grandi, che mi aspettavano accucciate sull’uscio di ottobre, come un regalo.

Le ho trovate la mattina del 31 ottobre, dentro la sala delle carceri di Castel dell’Ovo, tra le immagini che popolano la mostra “Estasi” di Marina Abramovic. Una performance laboriosa ed intensa disseminata su tre video registrati nel 2009 dall’artista nell’ex convento di La Laboral a Gijon, Spagna. Qui, nello spazio costretto di una cucina piena di calcinacci, la Abramovic dedica tre scene a Santa Teresa d’Avila, la santa delle “estasi divine”. Una performance che è un po’ una prova attoriale, un po’ letteratura, un po’ rituale e, interamente, arte.

Credo fortemente che sia arte tutto ciò che riesca a far passare la pelle di un altro (l’artista) nella mia, e Marina Abramovic è un gigante nel riuscire ad instaurare questo rapporto epidermico col suo pubblico, nessuno come lei è capace di creare un corpo collettivo, la pelle splendida di una famosa canzone degli Afterhours.

Scena uno – VANITAS

Estasi: Marina Abramovic mostra a Milano la sua "cucina spiriturale"

Nel primo video, un’inquadratura stretta dal taglio orizzontale mi propone l’immagine di un teschio di gesso e, ai lati, le mani dell’artista che escono da maniche di un abito nero, monacale, abbastanza vicine da rientrare nell’inquadratura ma non abbastanza da toccare l’oggetto al centro. Queste mani tese che si avvicinano lentamente, così lentamente che il movimento è quasi impercettibile ma lo si sente come inevitabile, mi fanno pensare: è come il tempo. È come guardare un orologio. Gravita verso il teschio, la mano, l’artista, io stessa, gravitiamo verso la morte ma, come mi fa notare chi osserva il video con me, con la cura che si riserva alle cose della vita. C’è una tensione da primo bacio, tra quelle dita che si avvicinano, una tensione come se dovesse accadere una rivelazione, e la rivelazione è la tenerezza, come quella di un primo bacio, come forse sarà l’ultimo. E forse, penso, l’estasi è quella: la tenerezza del gesto finale, della mano che non afferra, ma sembra voler proteggere.

Scena due – CARRYING THE MILK

Marina Abramović in mostra a Napoli con l'opera video The Kitchen | Artribune

Chissà se riesco davvero a parlare di una scena così piccola, che mi ha così profondamente sconvolta. Marina Abramovic/Teresa d’Avilia è controluce, a figura intera, nella cucina ora più riconoscibile, e sta ferma, guarda in basso, verso un pentolino ricolmo di latte fino all’orlo, che tiene tra le mani – ancora le mani. Durante l’arco dell’intera performance, che durerà più di un’ora, gocce di latte inevitabilmente scorrono fuori dal pentolino, per terra e sul vestito lungo, nero, dell’artista. Lei sta ferma, ma non si può stare così fermi da non fare mai disastri, non a lungo, io penso. Io penso: quante volte mi è capitato di cercare di stare immobile, con tanta più me stessa tra le mani di quanto riuscissi a reggere, quante volte i terremoti interiori di cui parla Santa Teresa mi hanno fatta rovesciare il contenuto dei pentolini che mi porto appresso, goffamente. Io penso: la vita non è fatta a prova di terremoti. Però, quando il latte comincia a cadere dal pentolino, la Abramovic continua nella sua performance, non è successa nessuna tragedia: il senso è nel gesto, non nell’incidente.

Scena tre – LEVITATION

Marina Abramović's Kitchen | Dazed

Alla terza scena arrivo come una terremotata emotiva, penso. Sono sfollata dalla mia stessa pelle. Marina mi aiuta regalandomi una scena di una bellezza maestosa, in cui leggo di meno ma guardo di più. La bellezza mi calma. In una cucina che ormai occupa tutta la scena, l’artista è sospesa da terra grazie ad una carrucola che la postproduzione rende invisibile (questo, e l’inquadratura stretta del primo video, e il lavoro di luci del secondo, rendono il videomaking parte integrante della performance), in una rappresentazione di quelle levitazioni estatiche di cui parla Teresa D’Avilia nella sua biografia. Con le braccia aperte e la testa dritta, che nel tempo della performance scendono lentamente, esauste, lungo i fianchi, questa scena è ancora una volta una prova di resistenza fisica per la Abramovic, che ha sempre trattato il suo corpo come il terreno su cui costruire un altare per la sua religione: l’arte.

E se c’è qualcosa che lega religione e arte è forse proprio questa nozione del sacrificio del corpo per un bene (o una bellezza) superiore – quel legame tutto terreno tra piacere e dolore che è poi lo sconvolgimento, il terremoto, l’estasi di scoprirsi vivi, nonostante tutto, e con così tanta bellezza di cui prendersi cura.

Soprattutto qui, e ora.

Marzia Figliolia

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