I dischi sono un po’ come i libri, quando li si ascolta per un paio di volte se ne riceve soltanto un’impronta generica, un’emozione positiva o negativa. Dei libri che abbiamo letto tanti anni fa non ricordiamo quasi nulla, se non l’impressione che ne ricevemmo. Non i personaggi, la trama, i colpi di scena: ma quello che ci rimase dentro una volta girata l’ultima pagina. I dischi funzionano allo stesso modo, anche se all’inverso: prima ancora dei testi, delle melodie, delle soluzioni armoniche, degli strumenti, ne ricaviamo una sensazione emotiva (che può anche essere del tutto sbagliata, sia chiaro).

LE STORIE CHE MANCANO

Ma con il Boss deve per forza funzionare così, perché lui ha sempre regalato emozioni. Ed è questo che gli si chiede, pur se la E-Street Band non è più dura e cruda come un tempo, pure se Jake non è Big Man, con tutto l’impegno possibile. Ed anche se la società che ci sta attorno non è più quella di una volta. L’America di oggi è decadente e bugiarda, stanca e sempre incline ai compromessi, nostalgica quanto basta per rispolverare vecchi refrain elettorali ai quali nessuno ha mai creduto veramente. Non ci sono più le storie, i personaggi, le atmosfere: inevitabilmente, la fonte d’ispirazione principale diventa il ricordo, triste o allegro che sia. L’introspezione è il metro che definisce tutto, i testi sono quasi tutti in prima persona: più che una “colpa” da addebitare al Boss, è un’amara constatazione.

UN ADDIO NOSTALGICO

Anima americana per eccellenza, Bruce Springsteen non può restare isolato da tutto questo ed andare per una strada diversa. Quando chiederanno ad un bambino di raccontare la storia degli Usa dagli anni ’70 in poi, quel bambino non potrà non citarlo, nel bene e nel male. Western Stars era il tramonto del sogno americano, disilluso e mortificato (leggi qui), Letter To You è il saluto nostalgico ad un paese che si è arreso, travolto dalle sue stesse irrisolvibili contraddizioni. Ma è anche l’addio a tanti vecchi amici scomparsi, tra cui George Theiss, compagno nei Castiles, la prima band.

GIOIA DI SUONARE E FORTUNA DI VIVERE

Durante l’estate del 2019 ho incontrato un mio vecchio amico che suonava nella mia prima band. Era molto malato ed è morto pochi giorni dopo, così sono rimasto l’ultimo membro vivente di quel gruppo. Avevo questo in testa quanto mi sono messo a scrivere, mi venivano in mente episodi di quando avevo 14 anni e ed altri più recenti. È un album che abbraccia un arco di tempo molto ampio, quello tra la mia prima band e quella attuale; fondamentalmente racconta ciò che ho imparato tra i 17 e i 70 anni”.  Sopravvivere a sé stessi, percorrendo la strada con i compagni di una vita:

Letter to you – racconta il Boss – affronta la perdita, la gioia di suonare, la fortuna di vivere facendo musica ed essendo parte di una band, quello strano legame di fratellanza che si crea con gli amici quando sei giovane: oggi suono ancora con le stesse persone con cui andavo al liceo 45 anni fa. Ho vissuto 45 anni con loro: una vita. Ho visto i loro lati migliori e quelli peggiori e loro hanno visto i miei. Siamo riusciti a far pace con noi stessi: gli ultimi 20 anni assieme sono stati i momenti più belli e più sereni di tutta la nostra vita lavorativa. Abbiamo percorso una lunga strada assieme, sperimentando la fratellanza naturale che nasce suonando assieme mille e una notte: è una sensazione meravigliosa, una benedizione. Lo auguro a tutti, ma mi rendo conto che relazioni lunghe 45 anni come queste non sono molto frequenti”.

45 ANNI E (NON) SENTIRLI

Registrato in cinque giorni, tutto live, con pochissime sovraincisioni e nessuna demo. Pensato e realizzato per essere suonato dal vivo, nella fattoria in New Jersey, alla fine del 2019. Poi, la pandemia che nessuno poteva aspettarsi. E’ un disco compatto, che suona bene, ma che non è potente, travolgente ed entusiasmante. Forse non poteva esserlo, per i motivi appena descritti, forse era lecito aspettarsi qualcosa di più. La E-Street procede ad occhi chiusi, basta il classico “one, two, three, four...”, e parte come un treno. Dal vivo resta una meraviglia che tutti dovrebbero vedere almeno una volta nella vita, su vinile i 45 anni iniziano a sentirsi tutti. Tecnicismi a parte, non ci sono canzoni che fanno camminare sollevato da terra, che mettono i brividi, che fanno chiudere gli occhi. Il sapore è quello della catena di montaggio, dove ogni cosa è perfetta, uguale, ma fredda.

UN LIBRO GIA’ LETTO

Il disco trascorre in attesa di un’entrata potente di sassofono, storica architrave dei dischi del Boss, ora quasi del tutto assente. O nella speranza di qualche assolo di chitarra, di una intensa sessione di fiati. C’è qualche spruzzata di armonica, c’è una forte base ritmica. Le tastiere di Roy Bittan e la batteria di Max Weinberg fanno il loro lavoro, come sempre. Ma la voce del Boss, e non potrebbe essere altrimenti, è palesemente stanca e pervasa da malinconia e tristezza. Manca quella spinta verso l’alto, quel pezzo che ti fa alzare al massimo il volume. Western Stars era stato un viaggio affascinante, diverso e introspettivo. Letter to You, a parte qualche sporadico episodio, è un libro letto tante volte. Mai fastidioso, sempre piacevole, ma non più entusiasmante.

LE CANZONI

Il disco si apre con l’accattivante ballata acustica One minute you’re here, intimista e malinconica quanto basta. Poi si parte con forza con il singolo Letter to you (ascolta qui), nel quale entra in scena la Band: un rock classico ma che passa via abbastanza anonimo, senza lasciare tracce. Burnin’train ha un intro che promette bene, tra campanelli e chitarre incrociate, e il potente ingresso della batteria che segue. E il resto del pezzo non delude, con le chitarre di Nils e Little Steven ad incrociarsi con la voce del Boss in una cavalcata all’altezza dei bei tempi andati.

Janey needs a shouter è il primo dei tre brani degli anni ’70 reincisi, che già circolava in diverse versioni bootleg. “Danno un’idea di come pensavo quando avevo 22 anni – Boss dixit – ma la forza, l’intelletto e l’esperienza di che mi sono costruito questi anni danno un altro sapore”. L’intro di organo infatti riporta subito ad un’altra epoca, il testo presenta una lunga galleria di personaggi che girano attorno a Janey. Medici, preti, poliziotti ed un uomo che guarda tutti dall’alto, “a man who knows her style”. Una storia di un’America rurale che non c’è più, uno squarcio sul presente del quale forse c’è decisamente bisogno nell’album.

Last man standing è il ricordo di George Theiss, ed è il pezzo con il quale ci si rende conto che Jake Clemmons fa ancora parte della E-Street Band. E c’è da chiedersi perché ciò accada soltanto adesso, perché la differenza si sente, eccome. Della successiva The power of prayer resta forse soltanto la perfezione stilistica dell’intro di piano di Bittan, con il sax che fa di nuovo capolino.

House of thousand guitar è una sorta di tributo al pubblico che affolla(va) gli stadi, del rapporto del Boss con i suoi sudditi. A sua detta, la canzone preferita dell’album: non la migliore, probabilmente, anche se il testo rimanda alle indelebili immagini dei concerti che nessuno potrebbe mai stancarsi di guardare. Rainmaker venne scritta durante la presidenza Bush, e rilanciata nel pieno nella crociata anti-Trump del Boss (con tanto di endorsment per Biden). Il testo racconta di un imbonitore, uno che si spaccia come l’uomo dei miracoli: il coniglio dal cilindro tirato fuori in vista delle prossime presidenziali, insomma.

If I was the priest venne suonata addirittura durante il provino che il giovane Boss fece con John Hammond: inizialmente acustica, si apre a ventaglio in perfetto stile sixties ballad. Anche se il finale lascia l’amaro in bocca: il pezzo sfuma mentre la Band si stava riscaldando, e Nils Lofgren stava iniziando a divertirsi. Ed è un vero peccato. Ghosts (ascolta qui) è uno dei momenti migliori del disco, perfetto stile E-Street incalzante e mai noioso. Anche qui aleggiano i fantasmi del passato, anche qui a parlare è il sopravvissuto del rock.

La tensione dell’album però cala in chiusura. Song for orphans risale agli anni ’70, in classico Bob Dylan style. Ne esiste una versione dal vivo del 2005, presente in un bootleg ufficiale. Il disco si chiude con I’ll see you in my dreams, che ricalca il solito schema intro acustico-band-finale acustico. Sullo sfondo, molto defilati, ricompaiono timidamente i fiati sin troppo dimenticati in questo disco.

UNA CHITARRA IN REGALO

Stavo uscendo dallo spettacolo a Broadway e come sempre c’erano dei fan ad aspettarmi. Sono arrivato alla macchina e c’era questo un ragazzo in piedi con una chitarra. Sono abituato sentirmi chiedere autografi quindi gli ho solo detto: “Amico, non firmo nessuna chitarra” e lui ha detto “No, questa è per te”. Era una bella chitarra, l’ho presa e abbiamo parlato per qualche secondo. Arrivato a casa l’ho messa in soggiorno ed è rimasta lì per un bel po’. Poi l’ho strimpellata: suonava davvero bene ed era comoda. Nei dieci giorni successivi, quasi tutte le canzoni dell’album sono uscite da lì”. Quel fan era italiano, non ha chiesto autografi né selfie. Voleva fare un regalo a chi è stato colonna sonora della propria vita. Il Boss lo sarà per sempre, per ognuno di noi. Ma Letter to you, probabilmente, non farà parte della playlist.

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