L’arte è espressione dell’uomo, che a sua volta è espressione della società in cui vive. Di conseguenza l’arte non può essere disgiunta dal contesto sociale in cui si esprime. A volte anticipatrice di qualcosa di nuovo, altre volte restauratrice del vecchio. Ma l’arte sarà sempre produzione sociale, intesa come un bagaglio emotivo-esistenziale che fa da sovrastruttura ad una dimensione strutturale più saldamente ancorata alle dinamiche del momento. Questo vale per la pittura, la scultura, la letteratura, e naturalmente anche per la musica.
TRA THATCHER E REAGAN: GENERAZIONI PERDUTE
Nella seconda metà degli anni ’70, il Regno Unito era in uno stato di agitazione sociale e di povertà diffusa. Tasso di disoccupazione molto alto, in special modo tra la working-class che premeva sulle grandi città, con conseguenti tensioni e disordini sociali (leggi anche I Clash, la resurrezione del post-punk e il fuoco di Brixton). Durante questo periodo, la massa di giovani, privati della prospettiva di posti di lavoro, cercarono diversi modi per guadagnare denaro nelle attività di musica e intrattenimento.
Sul finire degli anni ’70 a San Francisco i senzatetto iniziarono ad apparire in gran numero in città. Era il risultato di molteplici fattori, tra cui la chiusura delle istituzioni statali per i malati di mente, e l’amministrazione Reagan che ridusse drasticamente le prestazioni abitative. Inoltre, aumentarò la disponibilità di droghe sintetiche che creavano dipendenza, in combinazione con la disoccupazione crescente. Sotto l’amministrazione del sindaco Dianne Feinstein, inoltre, la città aveva visto un boom di sviluppo chiamato Manhattanization. Furono costruiti molti grandi grattacieli, principalmente nel distretto finanziario ma anche in alcuni quartieri residenziali. Con il risultato di sradicare dalla vita abituale migliaia di persone, creando un “nuovo” proletariato che negli anni a venire avrebbe poi finito per ingrossare le fila della sovrappopolazione in cerca di sussistenza.
L’ESPLOSIONE DEL PUNK, LE CORRENTI DEL POST
L’esplosione di nuove band e nuovi stili musicali provenienti dal Regno Unito e dagli Usa alla fine degli anni ’70 ha principalmente questo background. Per molti giovani, era l’unico modo di guadagnarsi da vivere nella depressione economica che colpì sia l’Inghilterra durante il governo Thatcher che gli Usa durante la presidenza Reagan. E i testi delle canzoni trasudavano rabbia, frustrazione, contestazione o soltanto nichilismo. Il punk aveva mandato (temporaneamente, per fortuna) in soffitta il prog e il glam. Teste rasate, borchie, disperazione, droghe: era la reazione violenta e disordinata di una generazione derubata di un futuro sicuro, quella che aveva incendiato la seconda metà degli anni ’70. Fino alla morte di Sid, fino al “tradimento” dei Clash.
IL VERSANTE “INGLESE”
Tra le correnti post-punk che si affermarono tra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80, ci fu la New Wave of British Heavy Metal. Il termine venne coniato il 19 maggio del 1979 da Geoff Barton, giornalista del Sounds, mentre scriveva di un concerto tenutosi al rock Club Music Machine di Camden, a Londra, in cui si esibirono Angel Witch, Iron Maiden e Samson. Si trattata di una sorta di “seconda vita” dell’hard rock: conclusasi l’epoca gloriosa dei Led Zeppelin, dei Deep Purple e dei Black Sabbath, adesso l’hard stava inglobando il punk. Si erano perse le pentatoniche blues, si era acquistata gran velocità.
La ricerca della melodia, però, era rimasta intatta, a differenza di quanto successo con il punk “puro”. Gruppi come Judas Priest, Def Leppard, Motorhead, gli stessi Iron Maiden degli esordi, riuscirono a porsi in una linea di continuità sia con l’hard rock dei grandi del passato che con il recente punk. Ognuno aveva il suo stile: alcuni gruppi si richiamavano al prog, altri avevano un suono più scarno e potente, altri ancora vicini alle radici dell’hard rock e del blues.
CONFINI LABILI, ESTREMI CHE SI TOCCANO
Naturalmente i confini sono sempre molto labili, perché immaginare che la musica abbia dei compartimenti stagni è ridicolo. Qualche “purista” potrebbe infatti obiettare che i Motorhead e i Judas facciano parte del Trash/Speed Metal più che della NWOBM, e non potremmo dargli torto. Ma in questo caso bisogna spostarsi giusto di qualche centinaio di chilometri, negli Usa, dove l’inizio degli anni ’80 vide la nascita dei big-four (Motorhead, Slayer, Anthrax e Megadeth). Senza dimentica i Misfits, i Venom o i Discharge. Il trash iniziò ad assumere i propri connotati stilistici in California, precisamente nella Bay Area di San Francisco. Qui, alcune band locali come Exodus, Blind Illusion e Possessed iniziarono a sperimentare una velocizzazione del metal inglese, che si sarebbe poi diffusa a macchia di leopardo prima negli Usa e poi in Gran Bretagna.
L’HARDCORE PUNK
Ma il trash, a sua volta, era strettamente imparentato con un altro “genere” musicale (che Duke Ellington ci perdoni): l’hardcore punk. In questo caso dobbiamo spostarci di poco, perché la culla è la California meridionale, intorno alla città di Los Angeles. In seguito, all’inizio degli anni ottanta, si sarebbe diffuso anche a Washington, New York e Boston, per poi arrivare in tutta la nazione. Filiazione diretta del primo punk rock, l’hardcore va velocissimo, i cantanti urlano, i riff sono semplici, le sonorità aggressive e distorte. Brani brevi, niente suite o virtuosismi melodici. I testi sono generalmente politici e attenti a questioni legate all’insofferenza nei confronti della vita contemporanea e a problemi sociali o individuali.
Alcuni proseguirono nello stile di vita nichilista dei primi punk (lo street punk), altri (anarcho-punk e straight-edge) aderivano a uno stile di vita salutista, ambientalista, animalista. Niente grandi case discografiche, ma piccole realtà autoprodotte: In molte città americane la scena hardcore promuoveva produzioni economiche, formate da registrazioni di quattro tracce, vendute durante i concerti o tramite posta. Pochi, infatti i gruppi approdati al mainstream: tra questi, i Bad Religion e i Dead Kennedys.
LE TAVOLE DELLA LEGGE
Un panorama variegato e composito, seppur con molte cose in comune. Poi arrivò qualcuno che frullò tutto insieme, codificò le regole del nuovo linguaggio nato dopo il punk, e redasse in quattro grandiosi album (più un quinto che farà gridare allo scandalo i puristi del genere). Erano le tavole della legge dell’Heavy Metal. La rivoluzione dei Metallica seguì tre punti fondamentali, come ci racconta Onda Rock. “Nel 1983 istituzionalizzarono il thrash e lo speed, nel 1984 fusero i due stili in quello che è il sound heavy-metal vero e proprio, nel 1991 riportarono questo sound a più involute architetture rock”.
La partenza è il trash in stile Motorhead, ma più duro e d’impatto perché sostenuto da due chitarre e dalla potentissima batteria di Lars Ulrich, fondatore del gruppo (e odiato da tutti per la vicenda Napster del 2000, ma questa è un’alta storia…). E’ Kill ‘Em All, disco d’esordio del 1983. L’album vendette 5 milioni di copie in poco tempo, il Trash Metal era diventato grande.
LA SINTESI E IL NUOVO LINGUAGGIO
Ma è Ride The Lighting del 1984 (ascolta qui) a imprimere la svolta di un suono granitico, potente, che convoglia in un’unica direzione tutto quello che era stato fatto dalla new wave post-punk. Pezzi compositi, cavalcate sonore introspettive, armonie complicate ma sempre dure. In Inghilterra, mentre la NWOBHM ostentava il purismo metal, non solo il metal riprendeva dal punk, ma anche viceversa. I Metallica misero tutto insieme, e lo rielaborarono in una maniera che non ammetteva repliche: sono stati sia speed/thrash che metal. Hanno imparato la lezione di entrambi, mettendo a nudo e ridicolizzando le contrapposizioni tra “metallari” post-punk e punk o hardcore-punk.
Ognuno dei due “partiti” doveva qualcosa all’altro, ma dal 1983 in poi saranno tutti a dovere qualcosa ai Metallica. Prima di quel momento Los Angeles, ed il mondo in generale, era sostanzialmente divisa tra hardcorer e metallari. I secondi ritenevano i primi dei mocciosi e questi a loro volta dei buffoni gli altri. I Metallica spazzarono praticamente via le due frange del rock duro, convogliandole in una sola ripulendo il linguaggio del vecchio hard-rock anni ’70. Niente più slogan o destini del mondo in una canzone, ma pessimismo e nichilismo apocalittico. Erano iniziati gli anni 80’.
APOGEO E DECLINO
Nel 1986 arriva l’altra pietra miliare Master of Puppets, nell’87 (dopo la tragica morte di Cliff Burton) il quarto capitolo della saga …And Justice For All, che segna un po’ il passo rispetto ai tre lavori precedenti. La parabola si chiude nel 1991 con l’album omonimo, comunemente conosciuto come Blackalbum. Ormai rockstar conclamate, i Metallica abbandonano l’heavy per un metal a volte pomposo, ma pur sempre d’impatto (non ce ne vogliano i metallari immarcescibili). La forma canzone soppianta l’epica cavalcata metal, il grunge fa capolino da qualche parte, la doppia gran cassa non c’è più. E’ il dignitoso epilogo della fine di un’epoca gloriosa, di chi ha dettato le tavole della legge dell’Heavy Metal.