“Sono arrivato in città e ho perso la mia band / Ho visto l’ago prendersi un altro uomo / Via, via, il danno è fatto“. Autunno 1970, Journey Through the Past Solo Tour nel nord America. Come avrebbe fatto spesso, Neil Young suonò dal vivo un pezzo che avrebbe fatto parte di un disco che non era ancora uscito. Si intitolava The Needle and the Damage Done (ascolta qui). Un’amara riflessione sugli effetti devastanti delle droghe sulle persone: nel particolare, il riferimento era al chitarrista dei Crazy Horse, Danny Whitten, dipendente dall’eroina.
L’ONDA DEL SUCCESSO
La militanza nei Buffalo Springfield, due dischi solisti, il sodalizio con Crosby, Stills & Nash. Woodstock, due dischi di successo (Déjà vu e Four Way Street), pezzi dal forte accento politico in piena epoca di contestazione giovanile. Poi, i due capolavori solisti: After the gold rush (70) e Harvest (72), che elevarono Neil Young al rango di cantautore di successo. L’ingresso nel mainstream era ormai fatto compiuto, bisognava soltanto cavalcare l’onda. Ma questa formula evidentemente non poteva funzionare con un canadese cresciuto nel piccolo paesino di Omemee, a 130 km da Toronto.
L’INNOCENZA PERDUTA
L’innocenza del ragazzo di provincia, l’euforia per gli anni della “rivoluzione” hippie, erano spariti al cospetto dell’industria musicale. E i danni collaterali del successo ora reclamavano il conto. “Da quando ho lasciato il Canada spostandomi giù al sud ho scoperto tante cose che prima non conoscevo. Alcune di queste sono buone, altre cattive. Sono andato a vedere grandi musicisti prima che diventassero famosi, quando ancora non erano nessuno […] e ho ascoltato anche un sacco di grandi musicisti che poi, per un motivo o per l’altro nessuno avrebbe mai più ascoltato. Ma la cosa più strana è che quelli veramente bravi non li potrete ascoltare mai più, per colpa… dell’eroina. E continua a succedere ancora. Per questo ci ho scritto su una piccola canzone”. Sono le parole di Neil Young nel Live at Massey Hall.
COLPI TROPPO DURI
L’8 settembre 1972, l’attrice Carrie Snodgress, con la quale Young aveva iniziato a convivere, diede alla luce il loro primo figlio, Zeke. Al piccolo venne diagnosticata una forma di paralisi cerebrale. Il 18 novembre dello stesso anno Danny Whitten se ne sarebbe andato, stroncato da una dose di troppo. Il 4 giugno del 1973 sarebbe toccato al roadie e amico Bruce Berry. Sempre per lo stesso motivo. Colpi troppo duri che Neil incassò nel peggiore dei modi. Schiacciato dal senso di colpa per la morte dei suoi amici, e dalla tristezza per la malattia del figlio, l’inevitabile rifugio furono droghe e tequila. E l’inizio di un viaggio che sarebbe durato almeno due anni. Su Rolling Stone, il giornalista Paul Nelson scriveva: “Come i migliori cantanti blues tradizionali, Neil Young sembra totalmente solo sul palco, in un modo che non appartiene a nessun altro interprete contemporaneo […] testa bassa, mento piegato sulle spalle come un pugile, ti scruta con quegli occhi onniscienti, pieni di umorismo e che trasmettono bagliori estatici e sorrisi sornioni. Come Muhammad Ali, potrebbe essere il più grande”.
“IL PEGGIOR ALBUM CHE ABBIA MAI FATTO”
Il 15 ottobre 1973 vide la luce Times Fade Away, disco in cui fluì tutto il malumore del momento. Nichilista, sprezzante di ogni raffinatezza, essenziale ed a tratti acido. “Il peggiore album che abbia mai fatto, ma visto che l’intento era quello di documentare quel periodo è comunque un bel disco”. Parole dello stesso Young, imperfetto, stridente ed emotivamente provato durante un tour partito con due mesi di ritardo proprio per la morte di Whitten. “Era un tour scomodo, nient’altro. Mi sentivo un prodotto, e avevo questa band di musicisti superstar che non riuscivano neanche a guardarsi negli occhi”. Ma era soltanto il primo capitolo di quella che sarebbe stata definita la trilogia del dolore.
VIAGGIO NEL DOLORE
Schiacciato dai sensi di colpa per la sorte di Berry e Whitten, in questo disco e nei due successivi Neil Young sembra voler “infierire” su se stesso realizzando album sempre più nichilisti e disperati, caratterizzati da una ostentata noncuranza nei confronti della forma. Come riporta Wikipedia, all’epoca della loro uscita, ognuno di questi dischi vendette meno della metà del precedente. La critica era disorientata, in certi casi aspra, ma col passare degli anni apparve evidente come fosse proprio in quel trittico che Neil Young fosse riuscito come non mai, e forse come mai gli sarebbe più successo, ad esprimere veramente tutto se stesso, in opere intense e commoventi.
NESSUNA SPERANZA
Nell’agosto ’73 Young si chiuse ai Sunset Sound di Los Angeles per incidere quello che sarebbe diventato Tonight’s the Night, l’album più pessimista della sua intera discografia. Scarno ed essenziale sin dalla copertina, non ne fu tratto alcun singolo: il disco è segnato dall’ossessione e soprattutto dalla stanchezza. Intere nottate a farsi, bere, giocare a biliardo e registrare in presa diretta. Ma le registrazioni vere e proprie iniziavano a notte fonda, quasi all’alba. Il risultato fu una vera e propria “cappa” che avvolge il disco intero, creando un’atmosfera cupa, dalla quale non traspare la minima speranza, avvolgendo la voce incerta di Young che in alcuni punti suona decisamente stonata ed ubriaca. “È stato spettrale. Molto probabilmente sento quest’album più di qualsiasi altra cosa che abbia mai fatto”. Un disco in cui spiccano, oltre ai sensi di colpa ed al dolore per la morte dei due amici, la ricerca della solitudine e la disillusione rispetto all’utopia di Woodstock. Per volontà della Reprise, il disco sarebbe stato pubblicato solo due anni dopo, nel 1975.
GLI HONEY SLIDES
Ma nel terzo capitolo della trilogia (il secondo in ordine di pubblicazione) la rabbia e il dolore di Young non si affievolirono, bensì cambiarono obiettivo. La fine delle speranze hippie, la conclusione della storia d’amore Carrie Snodgress, la situazione politica ed il razzismo negli Usa. Oltre al dolore, sempre presente. On the beach (1974) è un compendio di melodie abbozzate, sogni malinconici, speranze frustrate. E la chiave interpretativa non poteva essere che quella del blues, declinato nella sua forma più struggente ed essenziale. “Uno degli album più disperati del decennio” lo avrebbe definito Rolling Stone. Arrangiamenti scheletrici, missaggi approssimativi, nonostante la presenza di numerosi musicisti di alto livello. Probabilmente gli “honey slides” facevano questo effetto. Erano frittelle di marijuana e miele, di cui tutti facevano largo abuso durante le registrazioni. Forse per questo l’atmosfera del disco risulta particolarmente ovattata e scarna. Magari era un modo come un altro per rendere più sopportabile il dolore, o forse per trovare il suono che si stava cercando. Ma la trilogia del dolore si era conclusa.