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Un uomo a pezzi o l’arte di non prendersi troppo sul serio: intervista a Francesco Muzzopappa

Francesco Muzzopappa in “Un uomo a pezzi” non può fare a meno di ridere di sè stesso. Perchè, se anche il mondo non smette di offrirci situazioni ridicole capaci di farci sghignazzare più o meno discretamente, il clown più spassoso è proprio quello che ci fissa sornione dallo specchio. Non è facile accettarlo ma, se lo si fa, si impara a vivere con più leggerezza (sì, proprio quella di Calvino, inutile che vi ripeta la citazione): meno si pesa, meno si affonda.

“Un uomo a pezzi” è quindi esilarante a patto però di riconoscere che anche noi lettori, col nostro passato denso di drammi famigliari, tagli di capelli più o meno deludenti, tradizioni della nostra terra e ricette che si tramandano di generazione in generazione, anche noi ecco siamo un po’ giullari di noi stessi. “Un uomo a pezzi” ci invita a ridere di noi stessi, prima che delle disavventure del suo protagonista – che poi non è altri che lo scrittore in persona – ma ci insegna anche che per guardare al mondo senza svenire di ansia o paura a volte è meglio scegliere la commedia, piuttosto che la tragedia.

In quest’ultimo romanzo, edito per Fazi, Francesco Muzzopappa riflette peraltro su un tema che oggi scotta più di ieri: il valore delle tradizioni. Il concetto di tradizione, che nel corso del romanzo è pressochè onnipresente, si interrompe al bivio per eccellenza, quello tra bene e male. Il lettore è quindi portato a chiedersi cosa del passato sia indispensabile tenere (ciò che contraddistingue le nostre carte d’identità e le nostre storie, per intenderci) e cosa invece sia meglio buttarsi alle spalle. Per esempio, la salsa di pomodoro è per sempre, il ribrezzo verso l’uomo che ama cucinare invece è buono solo come sacchetto per l’umido.

  1. “Un uomo a pezzi”: chi è l’uomo nel titolo del suo romanzo? Nei pezzi citati all’interno del titolo ho ritrovato i pezzi della vita del protagonista, presentati nella narrazione e mescolati in un lasso temporale fluttuante tra il passato e il presente. La mia supposizione combacia con l’intento che si era prefissato in fase di scrittura?

L’uomo a pezzi sono io. Si tratta di pezzi (per l’appunto) autobiografici che mi raccontano. Raccontare del mio ombelico è una scusa per parlare degli altri, dei nostri tic, delle manie degli italiani e della abitudini folli, a volte incomprensibili, che ci caratterizzano.

  1. Com’è stato scrivere un libro così fortemente autobiografico?

Mi sono divertito molto. La fase più complessa è stata precedente alla scrittura, e cioè la selezione degli episodi da narrare. Svolgo molti lavori, entro in contatto con moltissima gente e tengo nota di tanti momenti bizzarri che mi fanno o mi hanno fatto ridere. Per una estrema forma di pudore tengo da parte gli episodi più personali, espongo solo ciò che sento di poter condividere.

 

 

  1. Disavventure, incontri e ricordi tra la Puglia dell’infanzia e la Milano della gioventù caratterizzano le pagine di “Un uomo a pezzi”: qual è l’aspetto della metropoli lombarda che le ha maggiormente fatto sentire la malinconia di casa?

Mia madre è pugliese, mio padre calabrese, la mia educazione è stata un ibrido di tradizioni culinarie e dialetti. Del sud mi è mancata la calma, i primi tempi, e un atteggiamento forse più aperto nei confronti degli altri. Ma dipende anche dagli incontri che si fanno. Io posso dire di essere stato molto fortunato, ho incontrato gente splendida. Non contatti di lavoro, ma amici, ed è questa la grande differenza in una città come Milano.

  1. Questo romanzo è un inno a tutti coloro che per le più disparate ragioni si sono dovuti spostare dal luogo d’origine: una micro-migrazione interna che da moltissimo tempo caratterizza il nostro paese. Si tratta di un distacco, ma mai del tutto netto – un po’ come il taglio di capelli del protagonista che resta sempre uguale, pur cercando la novità – come emerge fortemente dalle pagine di “Un uomo a pezzi”: qual è il cordone ombelicale che, nel suo caso, l’ha tenuto legato alla Puglia?

Come ripeto spesso, nel mio caso il cordone ombelicale non si è spezzato: si è allungato. Milano è terra di opportunità ma anche dell’insana tendenza a lavorare oltre l’orario di lavoro. Dalla mia terra mi porto dietro la provincia, i piedi per terra, la consapevolezza di essere un Clark Kent che dovrà impegnarsi molto per diventare Superman, perché la provincia non ti regala nulla, e sei comunque lontano da ogni possibilità. La mia fortissima motivazione viene da lì: devo meritarmi ciò che ho. Non mi considero mai arrivato.

 

  1. I suoi libri sono intrattenimento allo stato puro eppure la scrittura comica costituisce un genere letterario difficile da distillare con precisione, c’è sempre il rischio di scivolare nella superficialità o nell’autocompiacimento. La sua scrittura però cammina con stoico equilibrio su un filo ben teso e riesce a portare a casa il numero come un eccellente equilibrista. Quali sono i suoi modelli letterari di riferimento e perché è proprio questo il genere di romanzi che meglio le si addice?

Sono laureato in lingue. Ho divorato letterature di molti Paesi e in diverse lingue. Ho amato molti periodi letterari e tante autrici e autori soprattutto del 1800 inglese. Ma il senso di libertà che ho provato leggendo Una modesta Proposta di Swift e il Tristram Shandy di Sterne non l’ho trovato altrove. Una battuta ha la capacità di raccontarti una verità facendoti ridere. Rispetto alla narrativa base, quindi, una battuta si muove su due piani: verità + risata. Una volta capita questa regola, si comprende la complessità del genere umoristico, che è sì leggerezza, ma come insegnava Pirandello non dovrebbe esserci leggerezza senza scavo. Detto questo, mi nutro anche e soprattutto di modernità. Gli autori morti mi appassionano, ma sento anche molto trasporto per i vivi.

  1. Non ci sono solo battute e spezzoni scherzosi in questo libro, ho notato anche una forte, benché implicita, riflessione intorno al concetto di tradizione, un concetto oscillante tra quelle tradizioni da preservare per poter mantenere una radice e un’identità e poi quelle tradizioni che chiudono e feriscono. Secondo lei la società contemporanea vive ancora di un eccesso di tradizioni malsane o al contrario rischia di dimenticare quelle tradizioni che la rendono ciò che è?

Mai come in questo momento storico c’è una contrapposizione forte fra tradizioni eccessivamente conservative e un progressismo umano al quale forse dovremmo tendere. La nostalgia del passato mi fa tanto neorealismo, se devo essere sincero, e credo che un mondo più equo e giusto si muova su altri binari. Oscar Wilde diceva che le buone maniere vanno aggiornate. Credo valga lo stesso anche per le tradizioni. Va bene guardare con rispetto a ciò che c’è stato, ma non trovo il passato remoto affascinante quanto il futuro.

  1. Leggendo “Un uomo a pezzi” non ho potuto fare a meno di ripensare alla commedia così com’è nata, quella antica, Aristofane per esempio, ovvero quella che prendeva la realtà e la comprimeva in una visione che facesse dell’ironia la lente di ingrandimento di problemi comuni a molti. Pensa che imparare anche a ridere di sé possa essere un buon incoraggiamento a guardare il mondo che ci circonda con occhi nuovi?

Certa TV e certa politica hanno contribuito a distruggere quel sano meccanismo di difesa che per anni ci ha protetto anche da noi stessi: l’autoironia. Siamo diventati molto seri, irritabili, isterici, elettrici, sempre pronti a puntare il dito verso gli altri e mai verso di noi. Se prima di ridere degli altri, ridessimo di noi stessi, il nostro mondo sarebbe più vivibile. E si riderebbe il doppio, tra l’altro.

  1. A proposito di ironia e comicità, quest’anno ha pubblicato un altro titolo, in collaborazione con Sio: “Il primo disastroso libro di Matt”. Come si è trovato a scrivere a fianco di Sio e a immergersi nel mondo dei fumetti?

Sio ha realizzato per “il primo disastroso libro di Matt” una splendida copertina che ha contribuito al successo del romanzo stabilendo al primo sguardo un tono di voce. Adoro il mondo creato da Sio, così come adoro l’estrema educazione della generazione che sta crescendo con il suo lavoro. Mi ritengo molto fortunato e onorato di poter collaborare con lui su alcuni progetti.

  1. Di professione scrittore, ma anche copywriter: c’è una lezione importante che il Francesco copywriter ha insegnato al Francesco scrittore?

Non mi affeziono mai troppo alle pagine. Se la casa editrice mi contesta una frase, non minaccio di farmi esplodere in piazza Duomo. Sono abituato a considerare le parole come pezzi di ricambio. La pubblicità mi ha insegnato che tutto è perfettibile e che occorrono ritmo e capacità di sintesi. La scrittura umoristica vive di ritmo e sintesi, quindi grazie pubblicità.

Martina Toppi

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