Nei processi statunitensi, almeno fino a qualche tempo fa, la scelta della giuria avveniva in seguito ad una serie di accordi tra accusa e difesa. Quella del 22 aprile del 1992, a Los Angeles, era composta da nove giurati bianchi, un ispanico e un asiatico. Quegli uomini avrebbero deciso sul brutale pestaggio compiuto da quattro agenti della California Highway Patrol ai danni di un tassista dalla pelle nera, Rodney King. Il video di quell’aggressione aveva fatto irruzione nelle tv di tutta l’America. Ma il 29 aprile 1992, dopo sette giorni di discussioni, la giuria prosciolse tutti dall’accusa di aggressione, e tre su quattro anche dall’accusa di uso eccessivo della forza.

LA BATTAGLIA DI LOS ANGELES. E scoppiò la rivolta di Los Angeles. Dal 29 aprile al 4 maggio la città fu letteralmente bruciata. Saccheggi, aggressioni, incendi dolosi e omicidi, e le stime dei danni alle proprietà superarono il miliardo di dollari. Solo con lo schieramento dei militari l’ordine fu ristabilito in tutta la città: ma durante i disordini, furono uccise 63 persone, si contarono 2.383 feriti e più di 12mila arresti.

I fatti di Los Angeles si aggiunsero alla sequenza storica di sommosse a sfondo razziale: Watts 1965, Newark 1967, Detroit 1967, Miami 1980. Senza dimenticare quanto avvenne in molte città americane dopo l’omicidio di Martin Luther King nel 1968. Il razzismo e le barbarie della forza pubblica, giustificate dal colore della pelle delle vittime, e “protette” dall’appartenenza all’istituzione, da un distintivo. Quella era stata la scintilla in tante occasioni, quella fu la scintilla per scrivere un pezzo che sarebbe rimasto nella storia della musica.

FOR WEARING THE BADGE. Those who died are justified, for wearing the badge, they’re the chosen whites. È lecito uccidere quelle persone quando si indossa quel distintivo, quando si appartiene ai “bianchi scelti”. Sono i versi schietti e arrabbiati di Killing in the Name, seconda traccia dell’omonimo album di debutto dei Rage Against The Machine. È il 2 novembre 1992, sono passati pochi mesi dalla battaglia di Los Angeles. Some of those that work forces, are the same that burn crosses. L’indignazione cresce, non c’è più alcuna differenza tra gli agenti di polizia e coloro i quali incendiano le croci, quel Ku Klux Klan sin troppo tristemente noto.

IL GRIDO DI RABBIA. È un grido di rabbia contro l’America bigotta e razzista, che si nasconde ipocritamente dietro il sogno americano del self-made-man. E che lascia spietatamente indietro gli immigrati, i neri, e tutti quelli che hanno altri sogni. I proletari di tutto il mondo, massacrati da Zio Sam, che non hanno altro che rabbia da vomitare. Almeno quelli le cui coscienze non sono ancora anestetizzate: i Rage Against The Machine provano a risvegliarle, a modo loro. E vanno dritti al sodo: per sconfiggere definitivamente i pregiudizi serve ancora tempo, ma i cinque minuti di Killing in the Name lasciano un segno indelebile nella storia del rock.

LA PIETRA MILIARE. I RATM crescono nel solco di Run DMC, Beastie Boys e Public Enemy, i primi gruppi di derivazione hip hop che usarono le chitarre. Ma loro alzano l’asticella, creando una miscela sonora (in particolare grazie al genio di Tom Morello) che rappresenterà l’apripista di un genere nuovo, senza paragoni precedenti. Il loro disco d’esordio rappresenta infatti la genesi per rap metal, rap core e Nu Metal. Altri avrebbero poi seguito quella strada: dai Limp Bizkit ai Linkin Park, passando per i Crazy Town. Ma la pietra miliare dell’esordio resterà per sempre nella storia: è un album dai contenuti fortemente politici. Freedom (ascolta qui) è una protesta contro l’incarcerazione dell’attivista politico Leonard Peltier, Know Your Enemy (ascolta qui) una denuncia nei confronti dell’autoritarismo militare del governo statunitense.

LA SECONDA VITA. E poi c’è Killing in the Name, che nel 2009 conobbe una seconda, curiosa vita. Un dj inglese, tale Jon Morter, lanciò una campagna social incoraggiando l’acquisto del singolo dei RATM. Obiettivo? Scongiurare il trionfo del vincitore di X-Factor per il quinto Natale consecutivo. Sedici anni dopo, quel brano si ritrovò in vetta alle charts inglesi proprio nella settimana di Natale, la più buonista dell’anno. «Una meravigliosa dose di anarchia», commentò Tom Morello. D’altronde lo si legge nel testo: Fuck you, I won’t do what you tell me

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