La sera del 12 luglio del 1962 i Blues Incorporated di Alexis Korner avrebbero dovuto suonare al Marquee di Londra, ma nello stesso giorno la BBC gli aveva fissato una registrazione televisiva. Alexis fu dunque costretto a chiedere ad un suo amico di sostituirlo. E quando il promoter dell’evento telefonò allo sgangherato appartamento di Edit Grove, a Chelsea, per conoscere il nome del gruppo, la risposta che udì fu “Rolling Stones“.
Nient’altro che il nome del 45 giri di Muddy Waters che Brian Jones aveva sottomano in quel momento. Nient’altro che il tassello di un enorme mosaico di dischi blues che componevano il pavimento di quella casa, condivisa con Keith Richards e Mick Jagger. Due ragazzini di Dartford, compagni di giochi da bambini, che si ritrovarono sul treno diretto a Londra dopo sei anni di lontananza. Mick aveva sottobraccio alcuni dischi della Chess Records, Keith era ossessionato da Chuck Berry e Buddy Holly.
Non sempre i cerchi si chiudono, non sempre i corsi diventano ricorsi storici. Ma le origini, quelle non si dimenticano. A Edit Grove l’occupazione principale era ascoltare musica, ascoltare blues. Willie Dixon, Little Walter, Howlin’ Wolf, Eddie Taylor, il buon vecchio Muddy e tanti altri. Quelle sono state le origini di un lungo viaggio durato più o meno mezzo secolo, e che non è ancora arrivato al capolinea. Il blues si fonda sul dolore, sull’eterna speranza frustrata di un domani migliore. Su una donna che ti ha lasciato, su una rissa, su una bottiglia di troppo e un amico di meno. I Rolling Stones erano figli della media borghesia inglese, e come diceva Muhammad Alì, «i bianchi non potranno mai capire il blues, le loro donne non li abbandonano perché sono poveri». Però loro il blues lo hanno rivoltato, pur restandone fedeli, dopo tanti anni.
L’affermazione sfrontata di sé ha preso il posto dell’emarginazione, la vita spregiudicata e affascinante ha sostituito l’esistenza dimessa del classico bluesman. Del nero che, chitarra in spalla, ha dovuto abbandonare il Delta del Mississipi per cercare fortuna a Detroit o a Chicago. Gli Stones hanno riscritto le regole del blues pur restandone fedeli, lo hanno rivoluzionato senza abiurarlo, lo hanno celebrato e santificato senza scimmiottarlo. Nella Gran Bretagna post-bellica si poteva ascoltare il blues senza implicazioni razziali. Non era la prova della segregazione e dell’intolleranza figlie della schiavitù: era soltanto musica. Loro non hanno fatto altro che estrapolare il blues dal suo contesto, tenendosi stretti musica e testi, per restituirlo all’America sotto altre spoglie.
Pare che gli Stones non avessero ben chiaro cosa fare, una volta entrati negli British Grove Studios di Chiswick, appartenenti a Mark Knoplfer. Iniziarono così a testare il suono della stanza, “buttando giù ” rapidamente Blue&Lonesome (ascolta qui). Poi vennero le altre, rapidamente, con l’istinto e la naturalezza di chi varca il cancello di casa dopo tanto tempo. Nessuna pianificazione, nessun progetto discografico. Improvvisazione, ritorno alle origini, ripresa di un vecchio discorso. E il 2 dicembre del 2016, dopo tre giorni di lavoro, ha visto la luce Blue&Lonesome, 25esimo disco in studio arrivato 9 anni dopo A Bigger Bang. In soli tre giorni gli Stones avevano fatto i conti con cinquant’anni di musica.
Ha scritto la rivista Rolling Stone (in questo articolo): “Gli Stones non solo hanno capito il blues, ma l’hanno piegato alla propria volontà, trasformandolo nel suono con cui celebrano sé stessi. E con questo disco ci dicono una cosa, in fondo molto semplice: la gioventù è stata un periodo intenso per tutti, ma forse per loro lo è stato di più“. Forse nemmeno tornando ai tempi di Edit Grove sarebbero riusciti a fare qualcosa di simile. Gli Stones prendono dodici classici della musica del diavolo e li reinterpretano alla loro maniera: essenziali, travolgenti e diretti.
I riff di Keith, l’armonica di Mick, il tocco sporco quanto basta di Ron, il percuotere costante di Charlie. Il fantasma di Little Walter aleggia concreto come non mai, la cui armonica si rianima in quella di Jagger. E come lui, rivivono Willie Dixon, Howlin’Wolf, Memphis Slim e Magic Sam. Il blues ritorna in tutti i suoi stilemi più classici, nonostante a suonarlo siano dei figli della middle-class inglese.
Le atmosfere del Delta, i suoni elettrici di Chicago, lo slide di un ospite che più illustre non potrebbe. Il signor Clapton infatti suona la chitarra in due brani: una rivisitazione di I can’t quit you baby. e Everybody Knows About my Good Thing, originariamente portata al successo da Little Johnny Taylor. Più che un disco, è un libro di storia in cui i protagonisti sono eroi dei nostri tempi. Qualche critico musicale lo ha definito “un lavoro sincero e viscerale, voluttuoso e sensuale come soltanto un disco degli Stones può essere“.
I Rolling Stones non hanno mai abbandonato il blues, perché il blues è un demone che non si può uccidere. Puoi soltanto venirci a patti, sperando che ti lasci il tempo di combinare qualcosa di buono nella tua vita. Problema che non riguarda Keith Richards: sarà soltanto lui a decidere quando suonare l’ultimo riff.
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