Il 10 febbraio 1997 è una data di svolta della storia recente della musica: i Blur pubblicano il loro quinto lavoro, l’omonimo Blur. Se Parklife, del 1994, fu l’opera della consacrazione, Blur porta la band di Damon Albarn nell’olimpo del rock.
Superare i limiti: la storia musicale dei Blur
La storia musicale dei Blur non è semplice e la ragione si chiama Oasis.
Nel 1994, quando appunto i Blur arrivavano al grande pubblico con quello che molti considerano il loro capolavoro, la band dei fratelli Gallagher pubblicava il proprio disco d’esordio, Definitely maybe. Entrambi saranno numeri 1 in Gran Bretagna e accoglieranno consensi in tutto il mondo.
Nasce il brit-pop e nasce quella che è probabilmente la più grande rivalità nella storia della musica inglese dai tempi del dualismo Beatles-Rolling Stones.
Nel settembre ’95 i Blur pubblicano “The great escape“, contenente, tra gli altri, la pietra miliare “The Universal”. Gli Oasis rispondono a stretto giro di posta con (What’s the story) Morning glory?, album che contiene, giusto per citare un nome a caso, Wonderwall. Stesso risultato di critica e pubblico ottenuto nel ’94.
Tra le due band si avvia una vera e propria battaglia a suon di dischi di platino, numeri 1 in classifica e singoli che entreranno nella storia. Come se non bastasse i Blur sono di Londra, mentre gli Oasis di Manchester; alla rivalità musicale il pubblico inglese associa anche quella calcistica: se per i londinesi la squadra simbolo è il Chelsea, dall’altra parte è il City a legare il proprio nome alla band dei Gallagher, appropriandosi soprattutto di Don’t look back in anger.
Col senno di poi, se Albarn e soci avessero continuato a sfidare Liam e Noel sul piano del britpop oggi avremmo una produzione spettacolare in termini di vendite, un po’ meno sul piano musicale.
Invece, i Blur si reinventano e decidono di andare oltre, di rischiare il dissenso dei fan. E lo fanno nel 1997.
Blur e l’uscita dall’ombra degli Oasis
Con Blur, il gruppo londinese torna alle origini e allo shoegaze di Leisure (1991), ma getta un occhio al futuro iniziando a sperimentare e assumendo sonorità sempre più tenebrose, frutto di un gioco di suoni che preferisce la complessità all’orecchiabilità.
Il genio chitarristico di Graham Coxon e la penna di Albarn rendono questo disco un lavoro d’avanguardia che, invece di ricadere nell’autocompiacimento, segna il passo dei lavori in studio che connoteranno la musica dal 2000 in poi.
Risulta quasi impossibile non descrivere il disco brano per brano, soprattutto per ammirarne le influenze (i Sonic Youth di Sunday, Pavement, Nirvana) e l’evoluzione rispetto ai precedenti sforzi.
Song 2, il singolo più famoso estratto da quest’album, è il simbolo della nuova linea seguita dal gruppo: abbandonare l’estetica pop e l’approvazione del pubblico mainstream per cercare di creare un’identità che uscisse finalmente dall’ombra degli Oasis.
Se si guarda a Be right here, pubblicato dalla band di Manchester (e ovviamente numero 1 in UK, così come Blur) si può dire che l’operazione sia riuscita.
La consapevolezza di Blur
Blur è anche occasione di esprimere appieno quella malinconia che traspariva in brani come The Universal o Best Days. Country sad ballad man, che già dal titolo lascia poco spazio all’immaginazione, è un brano in pieno stile lo-fi che recita “Yeah, I found nowhere/ It got to know me/ Let me sleep all day/ Spend the money/ I haven’t felt my legs/ Since the summer/ And I don’t call my friends/ Forgot their numbers”.
Theme from retro, invece, è quasi un brano post-punk, incalzante, angosciante e, cosa fondamentale, assolutamente non britpop, così come due tra le altre perle del disco, I’m just a killer for your love e Essex Dogs, la traccia conclusiva.
Malinconia, atmosfere tenebrose e angoscia sono le cifre stilistiche di un’opera che trova equilibrio bilanciando il proprio lato oscuro con tracce musicalmente più allegre, come Movin’ On e On your own.
Si può dire, ad oltre vent’anni dalla pubblicazione, che Albarn avvia qui la tematizzazione delle angosce che segneranno la sua produzione del secondo decennio degli anni 2000, in particolare l’album solista Everyday Robots e i due lavori pubblicati con i The Good, the Bad and the Queen.
Il titolo di Blur, omonimo rispetto alla band, non può essere un caso. Inizialmente intitolato Five, il cambio di nome non può che essere sintomo della consapevolezza del peso che l’album avrebbe avuto non solo nel 1997 e non solo in Inghilterra, ma nella storia della musica nella sua totalità.
Superati i propri limiti e liberatisi dal mercato, i Blur avviavano il filone dei propri capolavori.