Appoggiato a qualche finestra aperta su una lunga distesa bruciata dal sole. Nel mezzo di un panorama fatto di cactus, solcato da un’unica striscia di asfalto e polvere. Stremato dal caldo e dagli insetti, parcheggiato davanti ad un motel gestito da un vecchio distratto e assonnato. Lì da qualche parte dev’essere nato il Desert Rock. Lì da qualche parte un ragazzo californiano ha infilato il jack della sua chitarra in un vecchio amplificatore valvolare per un basso, in modo da ottenere un suono più profondo, quasi ovattato. Il ritmo è inevitabilmente lento, perché a Palm Desert fa caldo, molto caldo. La chitarra è accordata un tono o un semitono sotto. Qui non c’è traccia della frenesia delle città, del vento delle spiagge e del rumore delle onde. Qui il sole brucia la strada, mozza il fiato e rallenta i movimenti.

Le tracce nella sabbia del deserto della California

Il doom metal partorito dai Black Sabbath aveva lasciato una traccia profonda in quella sabbia: impronte che il vento non ha mai cancellato, ma quel ragazzo californiano ha iniziato un altro cammino in quegli stessi solchi. Josh Homme nel deserto ci aveva sempre vissuto, e una volta raccontò di come da piccolo doveva “crearsi” dei divertimenti. Perché lì non c’era niente. Dall’età di 9 anni il suo divertimento fu la chitarra, una Ovation Ultra Gp compratagli dal padre.

Ora, immaginate di prendere un miscelatore, e seguire la seguente ricetta. Una spruzzata di punk grezzo, il doom di Ozzy e compagni, il metal impetuoso dei primi Metallica, il blues-rock dei Blue Oyster Cult, con l’aggiunta di una manciata di psichedelia, stile Jefferson Airplane o Grateful Dead. Il tocco in più? Amplificatori valvolari, pochi e semplici effetti per chitarra, e il “ritmo del deserto”. Risultato, Blues for the red sun, secondo album dei Kyuss, anno di grazia 1992. Quando il grunge era esploso, quando la new wave era ormai archiviata, quando il prog sembrava l’arredo di un museo.

Il mostro di Dungeons&Dragons

Josh Homme, Brant Bjork, John Garcia e Nick Olivieri si erano messi insieme nell’87. Si chiamarono Sons of Kyuss, dal nome di un mostro che Brant Bjork aveva trovato in un manuale della prima edizione di Advanced Dungeons & Dragons. Quell’anno ci fu un Ep di esordio omonimo, stampato inizialmente in sole mille copie. Poi la decisione di abbreviare il nome in Kyuss. Venne prima Wretch, disco di grezzo hard rock. E nel ’92 dal miscelatore venne fuori quello che, secondo la definizione di alcuni, sta al Desert Rock come The Piper At The Gates Of Dawn dei Pink Floyd sta al rock psichedelico della fine degli anni ’60.

Kyuss: guscio vecchio, sapore nuovo

Come se un gruppo di rock duro di fine anni ’60 avesse preso una macchina del tempo, mettendo l’orologio a vent’anni dopo, ma facendo tesoro di tutto quello che nel frattempo era successo. Nello stesso momento a Seattle esplodeva il grunge, mentre a Palm Desert veniva fuori qualcosa dal guscio vintage ma dal sapore nuovo.

Una sorta di un hard rock psichedelico che guarda indietro, che vuole fare a meno del metal e delle sue derivazioni, ma che, volente o nolente, ci è passato attraverso. Riff lenti e ipnotici, sound sporco e brutale, vocalità aggressiva. Questo è Blues for the red sun, questo saranno Welcome to the sky valley del ’94 (ascolta qui) e …And the circus leaves town del ’95 (ascolta qui). A differenza dei Nirvana o dei Pearl Jam, i Kyuss sono terribilmente brutali, pesanti, a tratti acidi. Mai malinconici, mai frenetici, forse tristi. Ma è quella tristezza che deriva da spazi enormi, assolati e vuoti: non dal ritmo incalzante, dal rumore dei treni e dalle voci della gente. Dall’asfalto bruciato, dalla luce abbacinante e dal respiro affannoso. È uno stato d’animo completamente diverso. Quello di chi, da piccolo, doveva crearsi da solo dei divertimenti.

 

 

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