Quarantena, giorno 19: da Seattle arriva qualcosa capace di riaccendere la speranza, di restituire energia, anche se solo per un’ora o poco meno. Gigaton è l’undicesimo album in studio di un gruppo di ragazzi partiti da Seattle ventinove anni fa e finiti nella Hall of Fame del rock.
L’ultimo album dei Pearl Jam circolava online già da qualche giorno, ma abbiamo preferito non rovinare l’attesa, attendendo che il display del cellulare si accendesse con la notifica di Spotify (qui) legata all’uscita dell’album, essendo rinviata a data da destinarsi la possibilità di ascoltare il disco su supporto fisico (che, probabilmente, è quello che rende la maggiore giustizia al lavoro prodotto da Josh Evans, cresciuto nel mito di “Ten”, e mixato con una tecnica estremamente particolare.
“Sì, ma non sono più quelli di Ten, Vs, Vitalogy…“. È il caso di ammetterlo: questi dischi sono capolavori, ma appartengono ormai al classic rock.
Gigaton, secondo noi, resta una delle migliori uscite degli ultimi anni.
I Pearl Jam non sono più “quelli di una volta”? Prendete una fotografia di Vedder, Ament e Gossard e McCready di ventinove anni fa, mettetela a paragone con quella di oggi: sono sempre loro, con un linguaggio, delle idee, dei messaggi coerenti con ciò che sono oggi. Con lineamenti diversi sul volto, ovviamente, e magari anche i capelli un po’ più corti, ma sono loro.
Il giovane benzinaio e buttafuori di San Diego, che nel tempo libero amava cantare e cavalcare le onde con una tavola da surf, e narrava storie come quella di Jeremy o del ragazzo che scopre di avere un padre biologico che non ha mai conosciuto, oggi è un uomo.
In Gigaton c’è il dolore per la perdita di un amico (Comes then goes, emozionante, in pieno stile Vedder acustico), lo sguardo sul mondo (“To find a place Trump hadn’t fucked up yet“, nell’arrabbiatissima Quick Escape), la voglia di mettersi in gioco con un suono nuovo, scendendo sulla pista da ballo delle chiaroveggenti, c’è la vita che oggi vivono Eddie e compagni che, inevitabilmente, è diversa da quella che si viveva a Seattle negli anni ’90.
E poi c’è la speranza, proprio con la triade iniziale “Who Ever Said“, “Superblood wolfmoon” e “Dance of the clairvoyants“. Una speranza, un’energia positiva, di cui ce n’è bisogno, proprio adesso. “Seven ‘o clock“, dopo un’introduzione dal tratto psichedelico, invita a riflettere, tra doppio pensiero politico e innalzamento del livello del mare.
Ci sono pezzi energici, chitarre ispiratissime, batterie potenti, ma anche ballads introspettive, a tratti amare, capaci di entrarti dentro con la dolcezza del sussurro di Vedder. Ci sono brani lunghi, molti anche oltre i cinque minuti: una scelta coraggiosa, visti i tempi che corrono e il modo in cui si fruisce della musica.
Adesso prendete altre due fotografie, le vostre però, e mettetele una accanto all’altra: non siete mica gli stessi di dieci, venti, o trent’anni fa.