La musica ha una sua storia, un suo percorso. Fatto di curve, strade accidentate, improvvisi imbuti, e incroci che portano alle arterie principali. Nel bel mezzo di questi crocevia, talvolta, si collocano artisti che accompagnano il divenire delle sette (o dodici) note verso una direzione piuttosto piuttosto che un’altra. Artisti che, nel bene o nel male, hanno impresso una svolta, hanno sintetizzato e concentrato quel flusso dandovi una direzione precisa.
La scena post-industrial
Sul finire degli anni ’80 la new wave sta sparando le sue ultime cartucce: sta per concludersi un decennio di rimescolamento musicale, durante il quale sono nate molte realtà ancor prive di una propria dimensione chiara e ben definita. Tra queste, la post-industrial music. Termine ombrello con cui si indicano tutti quei generi musicali emersi dagli anni ’80 che hanno mescolato stili musicali vecchi e nuovi con stilemi tipici dell’industrial, detto così per l’etichetta Industrial Records che li aveva raggruppati. Suoni elettronici, sperimentali, a volta di derivazione punk, con forte propensione alla performance art. Ampio utilizzo di chitarre distorte, synth, drum machine, campionature mutuate dal rap. Testi ricchi di tematiche oscure e controverse, spesso nichiliste fino all’autodistruzione. Un mare aperto in cui navigavano parecchi gruppi, in particolare tra Germania, Inghilterra e Giappone.
La svolta da un ragazzino che suonava Mozart
Poi, la corrente arriva ad un incrocio, verso la fine degli anni 80′. Ed a quell’incrocio trova qualcuno pronto ad indirizzarla verso una direzione ben precisa. Da un lato, gli americani Ministry; dall’altro, lo sguardo penetrante e nevrotico di Trent Reznor, deus ex machina dei Nine Inch Nails. Nato in Pensylvania, cresciuto dalla nonna materna. Seduto ad un pianoforte, a 6 anni, era in grado di suonare Mozart alla perfezione, eccelleva con la tuba ed il sassofono. Poi vennero l’Ohio e l’adolescenza, l’elettronica e il rock con i suoi numi tutelari. David Bowie, Iggy Pop, Prince, i Depeche Mode, gli Skinny Puppy e appunto i Ministry.
Trent Reznor è stato tra i primi a dare forma all’Industrial Metal, unendo la poetica di un songwriter introspettivo alle nevrosi dei suoni metallici, specchio di una società sclerotica e disumana. Il primo disco dei NIN, Pretty Hate Machine (1989), è un manifesto di pulsioni distruttive contro il mondo contemporaneo, artefice di alienazione ed illusioni, fonte di un progressivo allontanamento da sé e dagli altri. Il 24enne autore si confronta con i temi dell’ossessione per il denaro, della grande bugia della religione e della depressione psichica. Un discorso che Trent porterà fino all’estremo, con le tematiche che verranno trattate nel capolavoro del 1994, il terzo album Downward Spiral.
Manipolatore di suoni e songwriter
Ma l’equilibrio, anche nel primo (e per certi aspetti rudimentale) lavoro dell’89, non manca mai. Reznor stesso incarna il punto di incontro tra il produttore, il manipolatore e costruttore di suoni artificiali e il musicista rock. Con tutta la sua sensibilità poetica nell’espressione del mal di vivere e l’energia di performer. Inoltre Reznor ha dalla sua un enorme talento, che gli consente di scrivere canzoni memorabili. Pretty Hate non è il suo miglior lavoro, ma è l’inizio di un percorso che porterà alla definizione dei canoni dell’Industrial Metal. Gli echi della new wave sono ancora forti, ma lui li adatta alla potenza abrasiva dell’industrial, inserendo il tutto nello schema strofa-ritornello del pop.
Voce ruvida, occhi nevrotici
Pretty Hate Machine è un vero e proprio cult nella scena industrial-rock del periodo. I tributi a Ministry e Skinny Puppy sono evidenti, ma è la versatilità di Reznor a stupire e incantare, prima ancora che il sound. Dalle partiture che rimandano all’hip-hop (come il singolo Down In It, squarciato da suoni metallici come scorie industriali), alle atmosfere “dark” e drammatiche di Sanctified o Terrible Lie (ascolta qui), passando per le travolgenti Head Like A Hole (ascolta qui) e soprattutto Sin. Fino al capolavoro d’introspezione e disagio di Something I Can Never Have (ascolta qui), inquietante ballata per sola voce, piano e rumori di fondo. Come un burrone che si apre sotto ai piedi, come un tunnel senza via d’uscita. Una melodia bellissima e angosciante, un amore utopico e senza speranza. Pretty Hate è un equilibrio tra il suono artefatto della new wave, e la primordiale violenza metal. Nel mezzo, la voce ruvida e gli occhi nevrotici di un ragazzo della Pensylvania.