Jane Austen, Alice Munro, Elena Ferrante: tre anime estremamente diverse – una appartenente alla classe media ricca londinese, un’altra alle campagne del Canada e una di cui non si conosce la reale identità -, unite dall’aver raccontato l’universo femminile in una maniera unica.
Noi di MentiSommerse.it ne abbiamo discusso con Roxana Robinson (questo il suo sito ufficiale), autrice di sei romanzi, tre raccolte di racconti e della biografia di Georgia ‘o Keeffe.
È una collaboratrice del New Yorker, i suoi scritti e i suoi saggi sono apparsi su The New York Times, The International Herald Tribune, The Chicago Tribune, The Philadelphia Inquirer, The Washington Post, Bookforum, The Nation.
“Per gli scrittori la privacy è particolarmente importante”: lo ha affermato in un articolo, sull’identità di Elena Ferrante, per il Washington Post. Le grandi scrittrici del passato spesso hanno usato pseudonimi per mantenere questa privacy, questa riservatezza. Perchè pensa che uno scrittore, e in particolare una scrittrice, sentano il bisogno di celare la propria identità?
Permettetemi di precisare un po’ – io ho scritto “Per le scrittrici la privacy è particolarmente importante”. Le scrittrici hanno da sempre dovuto lottare contro i pregiudizi culturali. Per centinaia di anni, le donne non sono state mandate a scuola o all’università e non è stato loro insegnato a leggere e a scrivere. Solo gli uomini venivano istruiti, il che significava che sono gli uomini potevano essere scrittori. Questo ha fatto sì che la letteratura, per definizione, fosse al maschile. Qualsiasi cosa le donne scrivessero non era considerata letteratura.
Ci volle coraggio perché le donne si dichiarassero scrittrici, perché tentassero di contribuire a qualcosa che per definizione le escludeva. Charlotte Bronte scrisse il primo romanzo sotto lo pseudonimo di Currer Bell, presentandosi come un uomo agli occhi dei suoi lettori. “Le donne non sanno dipingere, le donne non sanno scrivere,” pensa Lily Briscoe, nel romanzo di Virginia Woolf “Gita al faro”. Lily sta citando i pensieri di un altro personaggio, le cui credenze hanno permeato la sua stessa visione, mettendo in dubbio la sua fiducia in sé stessa.
Le donne corrono rischi semplicemente nel presentarsi come pensatrici. Nel romanzo di Anna Burns, “Milkman”, la giovane narratrice subisce una minaccia fisica da un terrorista irlandese, semplicemente perché sta leggendo un libro mentre cammina verso scuola. Con questa azione è come se stesse dichiarando di avere un cervello, e questo per lui è intollerabile.
La riservatezza poi, intesa come rifugio, è cruciale per i romanzieri. Molti di noi preferiscono non parlare del proprio lavoro mentre è in fase di svolgimento. L’atto creativo è misterioso, e nessuno sa esattamente come funzioni. Minuziosità, giudizio critico, derisione, una sfida – qualsiasi cosa potrebbe intaccare l’equilibrio e interrompere la sorgente interiore di potere creativo.
Per le donne questo bisogno di protezione va ancora più in là: potremmo anche sentire il bisogno di essere al sicuro mentre altri leggono la nostra opera. Le donne sono giudicate per qualsiasi cosa e le scrittrici vengono identificate personalmente con la loro opera. I personaggi femminili sono criticati per il loro essere impertinenti, o audaci, o lascive, o algide, troppo spietate o troppo indulgenti. Per il fatto che si preoccupano troppo del loro aspetto o che non se ne preoccupano abbastanza. Perchè sono pessime madri.
Ciascuno sente il diritto di giudicare le donne. Gli uomini spesso non ricevono lo stesso intenso giudizio: è solo un ragazzo; quello che ha fatto è stato uno scherzo; non è riuscito a contenersi. Perdoniamo gli uomini per comportamenti riprovevoli, ma esaminiamo le donne che scrivono con il microscopio. Virginia Woolf una volta disse che non era in grado di scrivere del sesso o del corpo, perché non voleva che altre persone conoscessero i suoi pensieri su questi argomenti, nel momento in cui avessero letto ciò che aveva scritto. La scrittura è legata così strettamente alla persona.
Quando scrivi riguardo a qualcosa di così intensamente personale, il giudizio critico degli altri può diventare insopportabile. Può cambiare il modo in cui ti relazioni alla tua scrittura, rendere il tuo lavoro insopportabile per te. Può farti smettere di scrivere, innescare una forma di proibizionismo interiore. Nessuno può comprendere come queste cose funzionino. L’anonimato offre protezione da questi rischi. Se nessuno sa chi sei, puoi dire ciò che vuoi. Nessuno lo saprà, nessuno ti metterà in difficoltà, nessuno ti attaccherà o ridicolizzerà. Il tuo lavoro verrà osservato per se stesso, senza legami con la tua persona. Se starà in piedi o fallirà dipenderà unicamente dal testo, non da te. L’anonimato potrebbe essere il più grande lusso esistente per uno scrittore.
Elena Ferrante (questo l’articolo di Roxana Robinson pubblicato su “The Washington Post”) è un’autrice che esiste solamente all’interno dei propri libri. Non sappiamo niente sulla sua identità. Quali potrebbero essere, secondo lei, le sue principali influenze letterarie, basandosi su quanto emerge dalla lettura dei suoi romanzi?
Non conosco la letteratura italiana abbastanza bene da poter fare congetture, anche se immagino che abbia letto Elsa Morante e Natalia Ginzburg. Penso abbia letto la più grandiosa opera di Virginia Woolf, Gita al faro, che ha espresso così meravigliosamente gli aspetti della vita di una donna nel mondo della Woolf. Dal momento che Elena Ferrante è così audace, immagino anche che abbia letto Anna Karenina di Tolstoj e La casa della gioia di Edith Wharton. Oserei dire che ha letto Alice Munro, la nostra narratrice delle vite di ragazze e donne. Ipotizzo che abbia letto Ragazze di campagna di Edna O’Brien.
Penso abbia letto romanzi di scrittrici che hanno osato mettere per iscritto come sia davvero la vita di una donna. Come funzioni davvero la dinamica del potere. Quello che agli uomini è permesso dire sulle donne, e quello che gli è consentito fare alle donne.
Perchè è stata proprio New York la città epicentro della “Ferrante Fever”?
In un certo senso New York e Napoli sono simili: sono entrambe grandi città, ricche di storia e di cultura, entrambe contengono un’oscura tendenza criminale. Sono entrambe meravigliose e pericolose, entrambe ricche di contraddizioni e complessità. New York poi è un posto dove le scrittrici si riuniscono, dove discutono e si scambiano idee e opinioni. Ci sono molte di noi qui, e l’essere in tante ci rende più forti. I libri stessi ci hanno rafforzate, permettendoci di prendere in considerazione cose che non erano state dette prima.
Per me è stato come che se avessi scoperto l’immagine di un’altra città – Napoli – sorgere come un’immagine vivente che sostituisse quella in cui sto vivendo. Proprio allora, grazie a questi libri, era come se stessi vivendo a Napoli, in quel quartiere. Le mie amiche scrittrici stavano vivendo lì a loro volta. Ne parlavamo con entusiasmo, mentre respiravamo e ci imbevevamo dell’aria di quel quartiere di Napoli.
Una mia amica poetessa mi ha scritto delle mail, a tarda notte, riguardo a questi libri, mentre li leggeva. Mi ha scritto che era diventata ossessionata dall’idea del dialetto. Voleva sapere se era presente anche nei libri, nelle edizioni italiane. Non riuscivamo a darci una risposta. Ha cercato online per ascoltare questo dialetto, solo per ascoltarne il suono.
Lei è cresciuta a Brooklyn, figlia di genitori italiani. Nessuno dei due però era napoletano. Quando ha sentito il dialetto, era scioccata nel realizzare che le suonava familiare. Lo conosceva bene. Era cresciuta ascoltandolo, sempre intorno a lei. Sua madre, che era di Lucca, lo aveva disprezzato: “Nabaladad”, l’aveva chiamato. Lei si è ricordata di quella parola, si è ricordata di averla sentita pronunciata.
È stato esaltante scoprire la sua connessione con quei libri e quella cultura. Ma noi tutte abbiamo sentito una connessione – anche quelle di noi che sono cresciute in New England o in California o in Virginia – noi tutte abbiamo percepito le nostre profonde radici in quel quartiere di Napoli, perché la Ferrante stava parlando anche di noi. Stava descrivendo cosa voglia dire essere una donna.
Ho comprato il primo volume, “L’amica geniale”, all’aeroporto di Londra, nel bel mezzo della notte. Stavo facendo scalo, ero diretta in Francia, dove avrei dovuto incontrare i miei amici per un viaggio. Avevo bisogno di qualcosa da leggere e ho pensato che avrei dovuto comprare qualcosa scritto da uno scrittore europeo, dal momento che mi stavo dirigendo verso l’Europa. Avevo visto il nome della Ferrante sul New Yorker ma non avevo letto l’articolo su di lei. Comprai il libro e iniziai a leggerlo all’aeroporto. Dopodiché smisi di pensare al viaggio o ai miei amici. Volevo solamente leggere quel libro.
Nel campo della letteratura, i posti sono il palcoscenico su cui i personaggi prendono vita. Elena Ferrate scrive di Napoli in una maniera innovativa, ribaltando la narrazione di temi da sempre trattati, come la famiglia, l’amicizia o l’amore. Qual è la percezione di Napoli che le è giunta leggendo i libri di Elena Ferrante?
Sono rimasta affascinata e impressionata dal fatto che la Ferrante sia riuscita a creare un mondo così vivido e avvincente e a narrare una storia che non avevo mai sentito prima.
Invece che parlare di Napoli come di una città con una grande presenza storica, o di una città con una splendida presenza culturale odierna, l’autrice è riuscita a descrivere un luogo vivido e vivo, ma governato da una certa oscurità. In quel paesaggio ha inserito la Camorra, come un’antica gerarchia feudale che stringeva la città nella sua presa. È un ritratto terrificante e una rappresentazione antitetica rispetto a qualsiasi altra cosa abbiamo mai conosciuto.
Abbiamo letto della mafia, descritta in termini politici o economici; letto del trattamento sadistico riservato ai loro membri e concorrenti. Abbiamo visto la mafia divinizzata e romanticizzata nel nostro business cinematografico – sono così stanca dell’accettazione riservata alla cultura dei “bravi ragazzi”, come se questi teppistelli criminali abbiano una qualche sorta di fascino misterioso.
Abbiamo visto questi ritratti – ma io non avevo mai visto la mafia descritta come una sinistra classe dominante che distrugge la cellula di unità fondamentale in una società: la famiglia. In questi libri la Ferrante mostra cosa voglia dire per i bambini, le mogli e le fidanzate e quindi anche per i loro fratelli, padri e mariti, essere abbruttiti e distrutti da questo impero criminale.
Questa presenza, la presenza della Camorra, con il suo fascino sinistro e la sua terrificante spietatezza è ciò che permea queste storie, in una maniera che io non avevo mai visto prima. Il quartiere stesso è reso con una specificatezza sorprendente, gli edifici e le città, il cibo, i negozi, ma sempre in riferimento al loro sovrano: la Camorra. Tutti sono sottoposti alla schiavitù dell’organizzazione e a causa di questo l’intero quartiere condivide un’esperienza simile a quella vissuta sotto a un governo totalitario. Tutti quanti subiscono, disprezzano e rispettano i loro dominatori.
La Napoli della Ferrante è un posto ricco di bellezza e possibilità, ma reso problematico e paralizzato dai suoi padroni criminali. Mi è sempre sembrato che i libri non riguardassero l’amicizia tra donne o la competizione: per me le due donne somigliano ai diversi aspetti di un’unica persona. Le loro storie mostrano i due possibili percorsi di una donna, uno ostacolato e l’altro di successo: la tragedia di Elena è traslata in straziante sollievo dal successo di Lila. Entrambe sono messe in luce rispetto all’oscura presenza della Camorra, come una cortina tenebrosa tesa attraverso il cielo.
Un altro parallelo che ci piacerebbe disegnare è quello tra Jane Austen e Alice Munro (questo l’articolo di The New Yourker sulla scrittrice canadese), che hanno entrambe scritto di donne. Alice Munro ha vissuto la sua vita come una casalinga e una madre, in Canada, Jane Austen ha passato moltissimo tempo nella casa dei suoi genitori. In un certo senso queste donne sono molto diverse dai ritratti di donne che il moderno femminismo ci mostra, ma entrambe sono state in grado di ottenere un buon punto di osservazione per parlare della vita delle donne. E hanno fatto la differenza. Pensa che questo tipo di femminismo, lontano dal sessismo, sia stato una valida soluzione per affermare l’importanza delle del ruolo della donna nella società?
Jane Austen e Alice Munro vengono da due retroterra diversi. La Austen faceva parte di un’istruita famiglia inglese della ricca classe media, al cui interno la sua famiglia costituiva una sorta di piccola nobiltà. Il suo stile era elegante, luccicante di arguzia e ironia e fascino. Alice Munro è cresciuta in una povera fattoria, nella campagna canadese, dove la sua famiglia non aveva nemmeno il bagno all’interno della casa. Il suo stile è semplice e diretto, la sua voce più oscura e complicata.
Ma entrambe le scrittrici hanno fatto lo stesso, radicale passo – quello di mettere le donne al centro delle loro narrazioni. Hanno messo alla prova i loro precedenti letterari, dove gli uomini avevano sempre occupato il centro delle storie.
Entrambe hanno scritto di temi domestici, di mogli, madri, figlie, a volte amanti. Non hanno usato una retorica politica e non hanno messo alla prova la gerarchia sociale – potremmo chiamarle femministe ante litteram. Ma entrambe hanno preso molto sul serio il tema della vita delle donne. Nel cuore della loro narrativa risiede l’esperienza di essere una donna – quali sforzi essa prevede, quali possibilità offre, e anche quali rischi.
Come potrei essere sposata, ci chiede Jane Austen. Come potrei capire il senso di questa relazione, ci domanda Alice Munro. Ci hanno raccontato le storie delle vite di donne e nel farlo hanno dichiarato che queste vite sono significative.
Alcuni dei temi di cui tratta nei suoi libri sono importanti argomenti della nostra era: l’ambiente, il riscaldamento globale, la dipendenza dall’eroina, la guerra. Lei è stata in grado di raccontarli attraverso la finzione e questo ha aiutato molte persone a comprenderli meglio. Perchè pensa che la finzione – il romanzo in particola, sia un efficace genere narrativo per trasmettere questo tipo di messaggi?
La finzione ci offre i mezzi più approfonditi per entrare in un tema. Conosco la Francia, Russia e l’Inghilterra del diciannovesimo secolo grazie a Flaubert, Checov e Trollope, non grazie ai libri di storia. La finzione ti permette di vivere all’interno di un’altra esistenza umana, ti permette di sentirti lì e di pensare come se fossi lì. Ti permette di provare empatia e l’empatia è il modo migliore per capire qualcun altro.
L’esperienza umana è qualcosa che noi tutti riconosciamo: leggiamo Omero e giungiamo a comprendere quella famosa guerra nell’antica Grecia, grazie alla rabbia e alla paura e al dolore che egli ci mostra. Riconosciamo molti di questi aspetti: il giovane uomo furioso, i genitori in lutto, la tenera moglie. Grazie a questa profonda connessione conosciamo qualcosa di importante riguardo a un altro secolo, a un’altra società, a un’altra cultura.
Per quanto riguarda la mia personale scrittura, ciascuno di questi temi si è presentato a me – l’ambiente, la dipendenza da eroina, le nostre guerre in Medioriente, il portato della schiavitù. Ciascuno di essi ha iniziato a disturbarmi e poi a consumarmi.
È stato attraverso la finzione che ho voluto mostrarli al mondo. Volevo fare esperienza di questi temi attraverso personaggi che li avessero vissuti. È solo attraverso la mente di qualcun altro che puoi comprenderlo, solo vivendo attraverso quelle sofferenze puoi arrivare a capire come sia la sua vita. Perciò la finzione è stata il modo che ho scelto per esplorare questi temi. Capiamo cose impegnative -guerra, immigrazione, malattia – attraverso piccoli aspetti della vita – le reazioni umane. E’ lì che viviamo, in quelle reazioni.
Ha in mente uno o più libri che le abbiano cambiato la vita? Se sì, le andrebbe d parlarcene?
È una domanda adorabile, questa. Molti libri mi hanno cambiata, ma vi parlerò di una lettura molto precoce. Quando ero una bambina, dall’età dei sei anni in su circa, ero ossessionata dai cavalli. Ho letto tutti i libri che potevo trovare su questi animali.
Molti di essi riguardavano giovani ragazze e i cavalli che avevano comprato o trovato o che gli erano stati donati e con i quali avevano compiuto qualche eroica impresa – vinto una gara, guadato un fiume, salvato la vita di qualcuno. Erano storie di avventura ed erano eccitanti perché quegli animali erano meravigliosi, gentili e veloci.
Li amavo anche perché saper cavalcare rendeva una giovane ragazza potente e insuperabile. Avevo circa dieci o undici anni quando lessi “National Velvet”, dell’autrice inglese Enid Bagnold. Rimasi folgorata dal paragrafo di apertura, che era la descrizione di un paesaggio. Qualcosa del tipo “Le colline curvavano verso l’orizzonte come il dorso degli animali al pascolo.”
La frase non aveva nulla a che fare con la storia del cavallo o della ragazza. Era semplicemente pura scrittura. Portai il libro nella stanza di mia madre e lessi il paragrafo ad alta voce. “Non è meraviglioso?”, le domandai.
Si spalancava di fronte a me, questo sorprendente paesaggio. Fu allora che compresi che la scrittura era qualcosa di più di una semplice storia, qualcosa in grado di offrire strati di significato e possibilità. C’era la storia, e poi c’era la scrittura stessa, e questo mi esaltava.
Corrado Parlati e Martina Toppi