Pescatori, marinai, manovali, scaricatori, operai. La storia dell’isola di Hisingen, la quinta più grande della Svezia, potrebbe essere il contesto giusto per una favola nordica, un racconto di Jack London o una storia del proletariato moderno. Dalla pesca agli stabilimenti della Volvo, passando per gli enormi cantieri navali aperti nel dopoguerra e chiusi nel 1979. La gente di Hisingen conosce il profumo del mare e la pesantezza del ferro, il silenzio dei fiordi e il rumore delle catene di montaggio. Contraddizioni apparenti, perché inserite nella dialettica del travolgente e inesorabile sviluppo moderno. La quiete del mare del nord e i bulloni da avvitare, il vento gelido che si abbatte sulle ripide scogliere e le fiamme dei saldatori.

Rabbia e malinconia, impeto e tristezza

A pensarci bene, sono gli stati d’animo che stanno alla base del blues. La malinconia e la rabbia, l’impeto e la tristezza, il silenzio ed il rumore. Un’isola e la sua gente, che si rispecchia in sé anche attraverso la propria musica. Per tutti questi motivi, Hisingen Blues non è solo un disco, tirato fuori nel 2011 da quattro ragazzoni svedesi conosciuti (poco, dalle nostre melodiose e cacofoniche latitudini musicali) come Graveyard. E’ un trattato di antropologia delle sette note, un boccone dal sapore nuovo eppure non del tutto sconosciuto. E’ la miscela esplosiva, originale e travolgente del blues declinato alla maniera di Page, Plant, Bonham e Jones.

L’essenza del blues-rock

Il peccato di blasfemia non ci spaventa. Soprattutto in un’epoca in cui spuntano fuori gruppetti tardo adolescenziali ad imitazione delle quattro divinità menzionate. Come provette da laboratorio, come progetti studiati nei minimi dettagli. Poi ci sono i Graveyard, che approdano all’essenza del blues-rock. Voce lancinante, riff di chitarra aggressivi e taglienti, sonorità struggenti e ballate semplici e dirette. Come si faceva una volta, come non si fa più. Senza inventare nulla, il che non è necessariamente un difetto. Hisingen Blues è un disco onesto e sincero, senza pretese né scimmiottamenti.

Il passato e le quattro divinità

Dal folgorante attacco di Ain’t fit to live her (ascolta – qui), all’anello di congiunzione con il prog di Uncomfortably numb (richiamato già nel titolo), passando per gli echi di Since I’ve been loving you di No good Mr.Holden. Dall’impetuosa title-track alle atmosfere quasi western di Longing, dal ritmo percussivo di Buyng Truth alle reminiscenze doom di Ungreateful The Dead. Fino all’appassionante cavalcata finale di The Siren (ascolta – qui), toccante e sinuosa, esplosiva e virtuosa.

E’ la fame di chi è ancorato ad un passato musicale, ma ha uno strenuo bisogno di musica vera. Come un grido di protesta o di dolore, come un vizio che diventa necessità vitale.  Non è infatti possibile terminare l’ascolto di Hisingen Blues senza pensare che sia stato concepito e suonato come soltanto i signori Page, Plant, Bonham e Jones avrebbero potuto fare. Il Dio del blues vive anche nei fiordi scandinavi: gloria eterna al Dio del blues.

 

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