Partiamo dal tuo libro, “Questa è l’America”, edito da pochissimi giorni per Strade Blu di Mondadori, con un particolare sottotitolo: “Storie per capire il presente degli Stati Uniti e il nostro futuro”. Quale approccio hai scelto per raccontare gli USA?
Quale pensi sia il legame tra questo paese e il nostro futuro?
Questi temi ci riguardano perchè l’influenza dell’America non è solo culturale, ma anche e soprattutto economica. Due esempi: la nostra economia si regge in grandissima parte sulle esportazioni e il presidente Trump ha imposto dei dazi che riguardano già ora l’Europa e che la toccheranno anche in futuro; c’è poi la questione libica che per noi è importantissima e che si è incartata recentemente perchè Trump ha deciso che l’America non avrà niente a che fare con essa.
Parliamo di politica estera americana, una frase che abbiamo sentito spesso uscire dalla bocca di Trump negli ultimi quattro anni è “America First”. Ma America First è uno slogan adottato nel 1940 da un comitato di isolazionisti, è davvero l’isolazionismo la direzione che sta prendendo la politica estera di Trump?
In passato l’America si è assunta il ruolo di guida internazionale e l’ha rivestito anche con generosità, faccio riferimento ad esempio al Piano Marshall, che certamente aveva anche l’obiettivo di stringere dei rapporti diplomatici e militari, per costruire relazioni basate sulla collaborazione. Trump pensa però che l’America sia stata nel corso degli anni troppo buona, morbida e gentile con la comunità internazionale e che ne sia uscita in qualche modo imbrogliata. Trump punta ad esempio a ridiscutere tutti gli accordi internazionali sul commercio, e a tal proposito prima o poi l’Europa si renderà conto di quanto sia fragile il proprio potere contrattuale.
Dal punto di vista militare invece l’America sta facendo notare agli alleati della NATO che non stanno versando quanto dovrebbero e che quindi non possono aspettarsi di essere difesi a spada tratta. L’America -dice Trump- non si immischierà più nei conflitti e nei casi di violazione dei diritti umani, difenderà invece i propri interessi a qualsiasi costo, motivo per cui il presidente non si è fatto problemi nell’uccidere un importante generale iraniano, anche se questo ha creato gravi disordini nella regione. L’azione è stata compiuta come rappresaglia perchè l’Iran aveva attaccato la base statunitense a Baghdad. “America First” non vuol dire “ci faremo gli affari nostri”, anzi vuol dire “noi siamo più forti di tutti gli altri”.
C’è una strategia politica dietro azioni come l’uccisione del generale iraniano Soleimani?
Sì, questa è stata una mossa in perfetta continuità con la politica che l’amministrazione Trump ha adottato sin dall’inizio. Nel grande conflitto decennale tra Iran e Arabia Saudita, gli Stati Uniti si sono schierati da subito con quest’ultima e hanno preso con essa molti accordi. L’Arabia Saudita oggi sa di aver mano libera, l’Iran invece è stato duramente colpito. Solo che, con l’uccisione di Soleimani, Trump ha scelto il modo più duro e traumatico per colpire questo paese. In questo sicuramente c’è stata un po’ di incoscienza da parte di Trump, che ha sì una strategia, ma è abbastanza incurante delle ripercussioni delle sue mosse, perchè pensa di poterne guadagnare comunque. Se l’Iran dovesse rispondere con violenza, Trump potrebbe cavalcare l’onda per mostrare agli americani quanto effettivamente il mondo sia pericoloso e quanto serva qualcuno in grado di usare una mano pesante.
Parliamo invece del tipo di propaganda e di retorica usata da Trump. Recentemente il ministro degli esteri iraniano è arrivato a definire il presidente statunitense “un bullo” e non possiamo dargli tutti i torti. La retorica di Trump non è certo delle più convenzionali, ma com’è accolta dai cittadini americani questa comunicazione tendenzialmente un po’ spregiudicata?
Dal punto di vista comunicativo Trump è riuscito a fare un’impresa che non era scontata e non era facile. I presidenti americani, di tutti i partiti del passato, hanno sempre aderito a un certo codice di comportamento in pubblico: si comportavano tutti in modo presidenziale, ovvero come ci si aspetta che si comporti un presidente degli Stati Uniti d’America. Trump non poteva – e nemmeno voleva – gareggiare su questo terreno. Lui, anche per la sua storia personale, è diverso da tutti gli altri presidenti che hanno avuto la carica, se si fosse adeguato a questo modello avrebbe disinnescato il meccanismo che invece l’ha portato a ottenere quella carica. Scardinare questo tipo di codici è stata la sua strategia vincente. La comunicazione aggressiva che usa non è mai venuta meno, fin dall’inizio, basti pensare che il 23 gennaio è stato il giorno in cui Trump ha scritto più tweet nella storia della sua presidenza: 130 in una giornata. Probabilmente non ha fatto altro che twittare.
Gli americani lo conoscono e non si stupiscono che si comporti così, anzi, è questo quello che si aspettano da lui. In questo modo è riuscito a risultare impermeabile ad accuse che avrebbero invece distrutto i suoi predecessori: ad esempio, ha avuto una relazione con un’attrice di film porno, il cui silenzio ha poi pagato con i fondi della campagna elettorale. Ma gli americani non se la sono presa, perchè sono convinti che sia fatto così e che non possa cambiare. Quelli che lo sopportano pensano che stia facendo delle cose giuste e opportune, basandosi sui fatti e non sul suo stile. La grande vittoria di Trump, possiamo dire, è stata mostrarsi per quello che è e non essere giudicato con lo stesso metro con cui venivano giudicati i presidenti del passato.
Le richieste dei suoi elettori nel 2016 erano abbastanza chiare: risolvere il problema dell’immigrazione, combattere il terrorismo islamico, distinguersi dai suoi predecessori e risollevare l’economia statunitense. Qual è il grado di soddisfazione di chi l’ha eletto nel 2016? Trump è riuscito ad adempiere alle richieste dei suoi elettori?
La risposta a questa domanda sarà fondamentale per capire che indirizzo prenderanno le presidenziali di quest’anno. Il dato attuale è che Trump è sgradito alla maggioranza dell’elettorato americano, la sua popolarità si aggira intorno al 40%. Questo dato ci dice che gli americani non cambiano più idea su Trump: quelli a cui piace, piace, nonostante quello che dice o fa, quelli a cui non piace, non piace. Trump ha mantenuto diverse delle richieste che gli sono state fatte in campagna elettorale. Il muro ai confini col Messico non è stato costruito, è vero, anche se il presidente è riuscito a trovare i fondi per farlo, ma l’immigrazione dal confine messicano è stata molto contenuta, con metodiche anche molto crudeli. Gli accordi che Trump ha fatto con molti paesi dell’America centrale per impedire il passaggio dei migranti sono stati un modo come un altro per rispondere alle richieste del suo elettorato.
Dal punto di vista economico il paese va bene – ma andava bene anche prima di Trump, comunque il dato di fatto è che la disoccupazione è oggi ai minimi storici. Quello che però bisogna capire è che l’America è un paese molto grande e quando noi vediamo il PIL che cresce si tratta di un dato medio, non equamente redistribuito. Se guardiamo quali sono i luoghi dove l’economia cresce maggiormente si tratta del sud, dell’ovest e delle grandi città: sono posti giovani, più ricettivi alle novità, multietnici, sono i posti che somigliano meno all’America di Trump. I posti che invece vanno peggio, nonostante l’economia generale cresca, sono quelli in cui Trump è andato meglio: quelli popolati dai cosiddetti blue-collars workers, gli operai, (Michigan, Iowa, Wisconsin), sono anche posti fortemente colpiti dai dazi della Cina su prodotti agricoli, acciaio e industria pesante. Molti elettori trovano in questo disagio economico la ragione per votare Trump, l’espressione della loro rabbia, o perlomeno così era nel 2016 quando il presidente sembrava giunto dall’esterno per risolvere tutti i loro problemi, ma oggi Trump non è più l’outsider. Oggi è il protagonista.
E per quanto riguarda la procedura di impeachment, invece? Pensi che possa in qualche modo influenzare gli elettori americani e allontanarli da Trump?
La procedura di impeachment è iniziata a settembre, quindi abbiamo avuto già tre mesi per capire come il popolo americano ha reagito. Tra l’altro l’accusa in questo caso è molto chiara, non è come il Russiagate, che era abbastanza nebuloso e pieno di mille personaggi strani. Qui c’è la trascrizione di una telefonata e ci sono dei testimoni, è tutto molto chiaro. L’impressione però è che l’opinione pubblica nei confronti di Trump non si sia spostata a seguito della procedura d’impeachment: chi già da prima era contro Trump si è convinto che non debba essere presidente, chi era a suo favore non ha cambiato idea. Il presidente sarà molto probabilmente assolto dal Senato e strumentalizzerà questa assoluzione, sebbene si tratti in realtà di una decisione politica e non giudiziaria (l’azione era di fatto meritevole di impeachment o meno?), che non cambia la realtà di quello che ha fatto. Grazie al processo di impeachment Trump cercherà di nuovo di presentarsi come outsider, come elemento che i grandi del potere vogliono far fuori.
Un altro tema caldo nel corso delle presidenza di Trump è stato il suo rapporto con le testate giornalistiche americane. Testate come il New York Times esprimono opinioni sulla politica in maniera molto incisiva, basti pensare al recentissimo endorsement per due candidate del partido democratico, Elizabeth Warren e Amy Klobuchar, che è stato protagonista persino di una mini serie tv e di un podcast. Ma quanto davvero queste prese di posizione influenzano l’opinione pubblica americana?
L’attività di giornalismo americano di ricerca delle notizie ha fatto molto male a Trump, ha fatto saltare fuori molte falle. La storia dell’attrice porno, la storia sull’Ucraina sono solo due dei tanti esempi che si possono fare. Ma il presidente è comunque riuscito a non farsene danneggiare troppo, sebbene sicuramente queste notizie un minimo di effetto lo abbiano sortito. Le opinioni invece non lo scalfiscono quasi per niente: negli Stati Uniti come anche qui in Italia, le persone tendono a fidarsi sempre meno delle opinioni dei giornalisti e Trump potrebbe anche avvantaggiarsi di questa situazione. Il New York Times ha cercato di rendere il più trasparente possibile questo procedimento di endorsement, perchè più volte è stato accusato da Trump di essere di parte. E’ normale che sia così, tutti hanno opinioni, ma Trump riesce a strumentalizzare questa cosa per dire “la stampa ce l’ha con me” e rendersi, ancora una volta, l’outsider della situazione.
Il tuo profondo interesse per l’America ti ha spinto anche a produrre un podcast intitolato “The big seven“, attraverso il quale tracci un profilo dell’America contemporanea passando attraverso sette grandi personaggi: perchè questa scelta di metodo e perchè Trump non figura tra i big seven?
Dopo la vittoria sorprendente di Trump nel 2016, io, come tanti altri giornalisti che hanno seguito questa storia, mi sono chiesto se ci fosse stato qualcosa che mi ero perso, se avessi potuto vederla arrivare. E’ stata una vittoria sorprendente e irripetibile. Trump ha vinto per una specie di incidente. Mi sono chiesto cosa avrei potuto fare meglio del mio lavoro per vederla arrivare e leggendo e interessandomi ho scoperto una cosa: chi vuole capire meglio la politica, interessandosi solo alla politica, finisce per non capirla.
Questo perchè le scelte delle persone non sono orientate solo da ciò che accade in politica, ma dipendono anche dai loro modelli e consumi culturali, dalla televisione, dai loro idoli, dai libri che leggono. Ho pensato che per andare in questa direzione potesse essere interessante raccontare l’America introducendo dei personaggi dello sport, della cultura, dell’economia, che incarnassero qualcosa di collettivo, che potessero raccontarci qualcosa dell’America. Ho tenuto fuori Trump perchè è troppo un attore protagonista di questa vicenda e avrebbe rischiato di schiacciare tutta la storia degli ultimi anni, ho preferito scegliere dei personaggi che hanno affrontato decenni della storia americana.
Lo stesso avviene nel mio libro: non racconta le elezioni e i candidati, non è un instant book. E’ un libro che spero si possa leggere anche a distanza di anni, certo racconta l’America del 2019/2020, ma non scade. Parla di politica, perchè tutto è politica, ma parla anche di lavoro, di sanità, di cultura, delle vite che fanno le persone. Ho cercato di capire meglio la vita americana, perchè solo così si può coglierne meglio anche la politica.
Oltre al tuo libro, c’è qualche scrittore che consiglieresti per conoscere meglio l’America?
Sei da pochissimo partito proprio per l’America, per l’Iowa precisamente, per raccontare la corsa elettorale del partito democratico statunitense. Cosa ti aspetti da questo viaggio?
Tra le altre cose, mi aspetto molto freddo. Ma anche molto attivismo da parte dei candidati democratici. Vorrei capire cosa pensano, vogliono e chiedono ai candidati gli elettori del partito democratico, perchè quello che arriva qui in Italia è in parte vero e in parte distorto dalla distanza. Prima di partire, dai colleghi già in America, ho sentito che in campagna elettorale si sta parlando molto poco di impeachment e molto più di sanità. Vorrei capire come i democratici pensano di sconfiggere Trump, qual è il loro umore, la loro disposizione d’animo e quali sono le loro priorità e i loro desideri. Lo racconterò su “da Costa a Costa”, un mio progetto giornalistico dedicato proprio agli Stati Uniti, attraverso un podcast finale che riassumerà il mio reportage e poi, passo a passo, tramite la newsletter cui ci si può iscrivere gratuitamente. –
Con Francesco Costa, qui su MentiSommerse, avevamo già fatto una chiacchierata a proposito del futuro del giornalismo, non perdetevela cliccando qui.
Martina Toppi