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“Atti Osceni” – L’Arte va a processo nell’opera teatrale di Bruni e Frongia

“Un giorno vi vergognerete di ciò che state facendo”

Due sere fa, al Teatro Bellini è andato in scena un processo impossibile e doloroso, che vedeva sul banco degli imputati non un uomo, ma la sua arte. Un processo alla bellezza. Non uno, anzi, ma tre: tanti furono i processi a cui fu sottoposto Oscar Wilde, la cui storia di “arti oscene” viene raccontata da questa emozionante opera teatrale di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, nella traduzione di Lucio De Capitani dal testo originale di Moisés Kaufman.

Il palco è spoglio, non ci sono distrazioni, tutta la scenografia è composta da qualche sedia e un paio di sbarre accanto alle quali si sussegue questa parata di personaggi che ruota attorno alla figura del grande scrittore irlandese, tradito più di tutto dal pensiero che l’arte e la vita non debbano necessariamente sottostare alle stesse regole, che l’arte sia in sostanza più grande della vita e dunque non debba – non possa – essere contenuta nello spazio stretto della morale benpensante e bigotta dell’Inghilterra di fine XIX secolo.

La storia di Wilde è la storia di un uomo che voleva fare della propria vita un capolavoro di letteratura, e così l’ha vissuta: con coerenza, piacere e la giusta dose di aforismi disseminati qui a là. Una fusione così perfetta, la sua, tra vita e arte che, accusato di tenere comportamenti inappropriati nei confronti del giovane Lord Alfred “Bosie” Douglas, di fronte alla lettura di una sua lettera “incriminante” in tribunale, tutto quello che ha da dire all’avvocato è che anche quella lettera è arte, è finzione, è commedia, perché “io non scrivo mai niente senza l’intenzione di essere pubblicato”.

Questa “Atti osceni” è un’opera che si apre con una certa comicità, quasi un invito alla leggerezza. Il primo processo – in cui, tra l’altro, Wilde è accusatore e non accusato – racchiude in sé momenti di piccata simpatia, un sarcasmo che sappiamo essere suo tratto tipico e che non si risparmia nel dibattito con un avvocato di tristi vedute che vuol per forza categorizzare i libri secondo moralità, mentre Wilde spiega con l’aria di chi dice una banalità che esistono solo due categorie di libri: quelli scritti bene e quelli scritti male.

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Così sono anche le vite degli uomini: vissute bene, appieno, o male, soffocate da una moralità che non lascia spazio alla fantasia, alla bellezza, all’amore. E così sono pure le parole di Wilde: crude come fatti osceni, in bocca ad avvocati avvoltoi che nel secondo processo (“La Corona contro Oscar Wilde”) tirano giù la poesia come frutti da un albero, senza cura, strappando tutto; oppure tenere, dolci, succose come quando a pronunciare quelle stesse parole è Oscar, un uomo di lettere ma, soprattutto, un uomo innamorato.

E Wilde è davvero innamorato di Bosie, come Apollo lo fu di Giacinto, ed a lui dedica lettere appassionate, per lui si getta nel fuoco di un secondo processo e poi di un terzo, sapendo che tutto ciò che l’aspetta è l’ignominia, la gogna, la vergogna. È il suo amore che lo sorregge ed il pensiero che Bosie, da qualche parte, provi le stesse cose per lui. Ma Bosie è lontano, è la causa di un male che procura una pena enorme ma dal quale, forse perché scritto così bene, non si riesce a distogliere lo sguardo.

E così noi della platea e, nostro malgrado, della “giuria”, assieme a quest’uomo tenero e graffiante nell’interpretazione di Giovanni Franzoni, offerto come vittima sacrificale davanti ai nostri occhi, scendiamo fino all’inferno dell’abisso ipocrita del sentimento umano della moralità cristiana, affondiamo nelle sabbie mobili dello scandalo borghese, dove il “vizietto” lo si può tollerare se è moderato, nascosto, pieno di turbamento e mai – mai – che si possa ad un uomo perdonare la follia di amare tanto da non sentirne la vergogna.

In due concitatissime ore di spettacolo, “Atti osceni” diventa un convincente e propositivo discorso sul rapporto tra arte, potere e libertà, in cui i nove attori – tutti bravissimi – si scambiano simbolicamente le parti, restando però tutti testimoni contemporanei di un affronto consapevole ad un’intelligenza vividissima, libera da qualsiasi schema o costrizione, e sorretta da un sentimento né puro né semplice, ma vero, di una verità luccicante per cui vale la pena vivere, morire e, soprattutto, scrivere.

Marzia Figliolia

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