Ultimamente, mi è capitato di leggere, a proposito di quel meraviglioso romanzo epistolare che è il Dracula di Bram Stoker, una riflessione di un altro grandissimo autore, Thomas Wolfe. Scrive Wolfe che “Dracula” il crocevia dei più intimi misteri primordiali: la morte, il sangue, l’amore e i loro reciproci legami. Aveva ragione, poiché i livelli di lettura del romanzo – e del suo personaggio principale – sono molteplici e tutti sorprendenti.

Per fare un esempio banale: conversando con il Maestro, l’inquieto Jonathan Harker realizza, con una certa sorpresa, che l’immagine del Conte – posto alle sue spalle – non è riflessa nel suo specchietto da barba, a differenza della sua che viceversa campeggia in primo piano. E dunque, cos’è questa se non la metafora del Male che alberga in ognuno di noi, invisibile ai nostri occhi poiché, al fine, il Male “siamo” noi?

E cosa ispira l’immagine del “non morto” che, col paletto che gli trafigge il cuore, infine spira (con un sorriso di “sollievo”, scrive Stoker, aprendo le porte all’Enigma proprio dove il romanzo si chiude) se non l’idea che la Morte – a cui Dracula presta corpo e irriverenza – possa essere combattuta, esorcizzata e vinta, con “sollievo”, solo dalle emozioni sincere, quelle che nascono dal cuore, le uniche che danno senso e prospettiva alla Vita?

Ecco, l’adattamento teatrale curato da Sergio Rubini e Carla Cavalluzzi pecca proprio in questo: di fronte alle infinite sollecitazioni di un “romanzo – universo”, decide infine di non decidere, seguendo la strada – nota e rassicurante  – del racconto fine a se stesso, della trama come scopo e non come mezzo (di indagine e di scavo).

Da qui gli esiti prevedibili – e talora esilaranti – di personaggi superficiali e senza spessore. Per cui Dracula è “solo” un vampiro lascivo e incazzato, Harker un giovane “inquadrato” che in Romania scopre sesso e trasgressione, Van Helsing uno scienziato canuto e ottenebrato evidentemente prossimo “a quota 100”.

Ed è un peccato, poiché gli attori sono bravi e talentuosi. Tutti.

A partire da quel Luigi Lo Cascio che mi fece innamorata di Gesualdo Bufalino e del suo Diceria dell’Untore, in uno spettacolo pieno di pathos, di fascino, di quesiti posti a mezza voce e mai svelati ma veramente recitati, portati fin dentro il mistero che è una pagina di libro quando diventa corpo sulle assi di un teatro.

E se Sergio Rubini – un dimesso e compiacente Van Helsing –  lavora tutto “in sottrazione” (secondo una cifra interpretativa già sperimentata nei suoi ultimi lavori), Margherita Laterza è chiamata a urlare, a scalciare e a dimenarsi oltre le intenzioni per restituire alla sua Mina gli accenti trasgressivi e il trasporto passionale così latenti e vividi nel romanzo quanto repressi e defilati in questo adattamento teatrale.

E poi c’è Geno Diana, un Dracula che non riesce a trasportare sulla scena tutta la tragedia romantica del vampiro, forse anche perché la trovata di farlo parlare unicamente in una – presunta – lingua pseudo-slava lo allontana ancor di più dal pubblico e dallo stesso romanzo, facendone un Dracula ancillare (nel peso della trama) e mestamente caricaturale.

Resta su tutto l’ottima interpretazione di Lorenzo Lavia nel ruolo di Martin Renfield, anche se mi resta il dubbio che gli si possa perdonare l’interpretazione un po’ “sopra le righe” solo perché, appunto, l’interpretazione di un folle. Restano anche le bellissime scenografie mobili, l’uso dello spazio scenico, delle luci, dei suoni (nonostante un tecnico audio in giacca di pelle chiaramente visibile sul fondo del palco, deus ex machina a cui nessuno sembra prestare attenzione ma che stride immensamente con tutto il resto) e il talento cristallino – seppur, a mio avviso, represso – degli attori.

Marzia Figliolia

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