La gatta frettolosa fa i gattini ciechi: perché gli occhi, nel corpicino dentro al grembo materno, si formano per ultimi e i problemi alla vista sono molto frequenti nei nati prematuri. Quindi I figli della frettolosa sono ciechi; e non si parla solo di gattini, perché sul palco della Sala Fassbinder presso il Teatro Elfo Puccini di Milano dal 21/10 al 3/11 I figli della frettolosa sono entrati in scena, ognuno con il bastone bianco e la mano sulla spalla di quello che lo precede fino ad arrivare al capofila, Gianfranco Berardi, che insieme a Gabriella Casolari (anche lei sul palco), ha curato testo e regia dello spettacolo.

I FIGLI DELLA FRETTOLOSA NON SONO POVERINI

TeatroSi parte da uno stratagemma metateatrale conosciuto e diffuso: una compagnia di attori deve preparare uno spettacolo e l’occasione in questo caso sono i cento anni dell’Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti. Ma questi attori, infierisce Berardi, a stento stanno sul palco e non sanno fare niente. Ma con degli attori incapaci di cosa parlare? Quale via percorrere per non essere banale ripetizione di spettacoli fatti meglio? Per fare qualcosa di diverso occorre essere diverso. E in effetti questa compagnia lo è: di undici persone in scena, sei di loro sono realmente ciechi e, a eccezione di Berardi che lo ha guidato, fanno parte di un laboratorio avviato dai due registi proprio con l’Unione dei ciechi e degli ipovedenti di Milano e di Cagliari funzionale non solo all’allestimento ma anche alla stessa creazione drammaturgica. Si innestano allora sul testo le singole storie, tenute insieme da voce e chitarra a scandire le emozioni e a farle nitide. Superando il teatro nel teatro, si entra in un mondo di volti che portano la visione della realtà di chi non può fare affidamento sugli occhi.

E così si scopre la voce di chi si sente fragile come un mosaico, di chi soffre una società da cui non si sente conosciuto, di chi cammina sempre con un labrador al guinzaglio e di chi, sicuro, procede da solo in metropolitana finché qualche buon samaritano non finisce per confonderlo. Ma i punti di vista (e anche durante lo spettacolo i giochi di parole si sprecano) non sono solo questi: si sente per esempio la stanchezza di chi, da normodotato, condivide la vita con un cieco, facendosi per lui ripetitore del mondo, e la preoccupazione di chi assiste un padre affetto da glaucoma congenito. E alla fine da ogni parte si innalza un grido, una rivendicazione esistenziale: io non sono un poverino. È una richiesta fatta al pubblico, un bisogno espresso a piena voce. Noi non siamo dei poverini.

NON E’ SUCCESSO NIENTE CHE VALGA PIU’ DELLA TUA GIOIA

Da spettatori non possiamo rimanere impassibili di fronte a questa dichiarazione di forza. È un coro che scardina la nostra posizione e ci immerge in una prospettiva nuova: è il pubblico ad essere cieco. (In fondo, come diceva anche Saramago, noi tutti “siamo ciechi che vedono”: e se vi siete persi il nostro articolo sul suo romanzo cecità, cliccate qui!)

E non solo perché la sensazione del controllo visivo porta a ridurre la consapevolezza degli altri sensi e a pensare di poter imporre all’altro una propria direzione che in realtà si perde nella complessità della società; ma anche perché fisicamente, fatti salire sul palco, alcuni spettatori si trovano a camminare a occhi chiusi con la propria mano sulla spalla di Berardi e degli altri attori non vedenti, veri padroni dell’invisibile, forti dei loro sensi, dei loro bastoni bianchi, dei loro riferimenti.

Cecità e conoscenza si intrecciano continuamente durante lo spettacolo che, sotto il velo dell’ironia e del gioco con se stessi, si configura come una lunga riflessione su come gli occhi si facciano interpreti del mondo e su come la conoscenza di esso sia molte volte evanescente. Da questa precarietà non si esce da soli; non ci riescono i vedenti, non ci riescono i ciechi. In questi ultimi però compare una consapevolezza in più: sanno che non ci si salva da soli, e questo consente di creare una rete più forte dell’individualismo e dell’instabilità di chi procede senza prospettive facendo affidamento solo su se stesso. La cecità allora diventa una condizione da affrontare, per quanto difficile, ingiusta, logorante e infinita. E questo farsi avanti di fronte a una prova tale riluce in tutto lo spettacolo, che culmina in un ultimo grido lasciato al pubblico da conservare, come frammento piccolo ma prezioso del percorso degli attori sul palco: non è successo niente che valga più della tua gioia.

I FIGLI DELLA FRETTOLOSA

testo e regia Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari

luci Matteo Crespi

con Gianfranco Berardi, Gabriella Casolari, Ludovico d’Agostino

e per le repliche milanesi Giusy Canalella, Angela Casaro, Alessio Gigante, Alessandra Martinelli, Flavia Neri, Gianmarco Panza, Silvia Zaru

assistente alla regia Matteo Ghidella

produzione Teatro dell’Elfo, Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse e Sardegna Teatro in collaborazione con Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti di Milano e di Cagliari

Per un assaggio dello spettacolo correte a dare un’occhiata al canale YouTube del Teatro Elfo Puccini, clicclando qui. 

Cecilia Burattin

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