“Mister Gorbaciov, tear down this wall!”. Fu la frase pronunciata a Berlino da Ronald Reagan il 12 giugno del 1987. L’America paladina della libertà dei popoli dell’Est Europa contro il regime dittatoriale, l’America che tutela i diritti umani, l’America che protegge il mondo. Viene da ridere, eppure l’immagine era quella. Loro sono i cattivi che dividono, obbligano, censurano e uccidono: noi siamo i buoni che aiutano, aprono, uniscono. A volte la propaganda politica veste abiti invisibili, che vengono indossati inconsapevolmente. Da chi è sincero, da chi sa che verrà ascoltato, da chi vorrebbe davvero una società più giusta. E nessuno, anche oggi, potrebbe definire “giusta” l’esistenza di un muro a separare una città, con tutto quello che ne conseguiva.
Sul finire degli anni ’80 tutto il mondo “libero” era compatto nel parlare di “Muro della vergogna” a proposito di quella barriera che divideva Berlino in due. E se l’abito invisibile viene indossato da gente come Bruce Springsteen, David Bowie o i Pink Floyd, il risultato può essere esplosivo. E può apparire come una rivoluzione.
Il 6 giugno del 1987 David Bowie suona davanti al Reichstag, a due passi dalla Porta di Brandeburgo. Dall’altro lato si radunano migliaia di giovani, e il tecnico del suono decide di orientare un quarto degli altoparlanti in direzione della zona est della città. Verso quei ragazzi presi a manganellati e in gran parte arrestati. “Voglio inviare i miei migliori auguri a tutti i nostri amici che si trovano dall’altra parte del Muro”, disse dal palco il Duca Bianco.
La scena si ripete il 19 giugno del 1988, quando una folla di almeno tremila persone accorse ad ascoltare il concerto di Micheal Jackson dall’altra parte del Muro. Noncurante di manganellate ed arresti. Pochi giorni prima si erano esibiti i Pink Floyd, ed è del tutto inutile dire quale fosse la canzone più attesa.
Da Berlino Est tentarono un ultimo, disperato contropiede, e ingaggiarono addirittura il Boss. Ma la cosa gli scappò di mano. «Non sono venuto qui per cantare a favore o contro alcun governo, ma soltanto a suonarvi rock’n’roll, nella speranza che un giorno tutte le barriere possano essere abbattute». Quel pomeriggio del 19 luglio 1988 Bruce Springsteen voleva dire “muro”, ma John Landau lo pregò di usare il termine “barriere”. Andò così, ma il messaggio arrivò ugualmente, forte e chiaro, alla DDR che aveva organizzato il concerto per simulare un’apertura ai “costumi” occidentali. Non è stato di certo il rock ad abbattere il Muro di Berlino: si è limitato a evidenziare alcune evidenti contraddizioni di quella società. Il resto è storia, ma di quelle storie che non hanno insegnano molto.
Prendiamo la Palestina, tanto per restare in tema di muri. In Cisgiordania dal 2002 esiste un altro muro, lungo 730 chilometri, che rende un inferno la vita dei palestinesi. Il rock non ha abbattuto il Muro di Berlino, ma ha unito i giovani dei due blocchi, o almeno ci ha provato. Ad Haifa esiste invece il collettivo palestinese Jazar Crew, che da dieci anni lavora alla creazione di una scena musicale underground palestinese che possa travalicare il “muro della vergogna”. Con tutte le difficoltà del caso, e senza i proclami del presidente degli Usa o gli appelli delle rockstar. Sono soli, contro militari e bulldozer.
Prendiamo il Messico, tanto per restare in tema di muri. Il muro di Tijuana, o “della vergogna” (termine che ricorre, ma che strano), misura per ora “soltanto” 23 chilometri. Nel 2006 il Parlamento americano (con votazione favorevole, tra gli altri, di Obama e Hillary Clinton) ha approvato la costruzione di una barriera sul confine di circa 1400 chilometri. Oggi sembra che “il mostro” Trump abbia trovato i finanziamenti per costruirlo. Eppure la colpa non è soltanto sua.
“La musica è il luogo legittimo per esprimere una protesta, i musicisti hanno l’assoluto diritto, il dovere, di aprire le loro bocche per pronunciarsi“. E’ quanto ha detto Roger Waters, intenzionato a portare lo spettacolo di “The Wall” proprio sul confine tra Messico e Usa. Insomma, dei muri proprio non ci si libera. Come a Ceuta, come al confine tra Grecia e Turchia, o a quello tra Ungheria e Serbia. Senza parlare delle “mura” erette nei porti, nelle acque internazionali o alle frontiere.
Dove vogliamo arrivare? Ad un concetto molto semplice: i muri tra le persone sono funzionali al controllo. Siano essi fatti di mattone o di miseria, di lavoro sottopagato, di schiavitù, di guerre o quant’altro di “bello” la nostra società produca. Stiamo parlando della stessa società che sul finire degli anni ’80 chiedeva a Gorbaciov di buttare giù quel muro. Libera, democratica e pacifica. E che invece non fa altro che dividere le persone, i popoli, le classi.
Usando biecamente ogni mezzo, anche quelli che colpiscono dritti al cuore, come una canzone di Springsteen o di Bowie. Quelli che emozionano, e che ti fanno pensare di essere davvero in presenza di una lotta dei “buoni” contro i “cattivi”. E qui non si tratta di mescolare l’ordine dei fattori e schierarsi dalla parte del “buono” preferito. Ma soltanto di rendersi conto che la legge che regola (o regolava) le due parti, in fondo, è la stessa.
Una vecchia canzone di Edoardo Bennato (ascolta qui) raccontava la storia del viaggio da Berlino Est a Berlino Ovest, ammaliati dalla luce e dalla musica che provenivano dall’altro lato del muro. “Lì tutto è permesso, lì tutto si può comprare. E ti conviene, spendere senza pensare. E se non avrai più soldi una mattina, ti troverai dall’altra parte della vetrina”. Ascoltatela.