Lui era nato in un villaggio dove fino agli anni Settanta si saliva a piedi, poi era arrivata la strada e l’aveva visto del tutto spopolarsi nel corso della sua vita. Una volta mi aveva detto: quando la strada arriva sembra sempre fatta per portare qualcosa, poi invece si scopre che è fatta per portare via.
Non conoscevo né l’autore né le sue opere, fin quando un giorno, mentre ero occupata a lavorare alla cassa de LaFeltrinelli, mi si avvicina un uomo, umile e imbarazzato, con in mano il piccolo libro di Cognetti: Senza mai arriva in cima. Viaggio in Himalaya (edito per Einaudi). Ma l’uomo, dalla giacca pesante e poco curata, non voleva comprare il libro, mi chiese solo se poteva portarlo via. Senza pagarlo, non aveva soldi, voleva rubarlo.
Da povera commessa non ho potuto fare altro che dire: «no, mi dispiace, va pagato!» Ero seriamente dispiaciuta, ma anche rallegrata da quella assurda richiesta.
Mancavano pochi giorni a Natale e tra la confusione e la coda sempre fissa davanti a me, avevo perso di vista l’uomo, finché non incrociai il suo cappotto riconoscibilissimo che furtivo usciva dal negozio.
Non ne ho la certezza assoluta, ma sono contenta se è uscito di lì con in mano il suo libro non pagato. Mi ha alleviato il senso di colpa, nel avergli detto di no.
Ma solo dopo mesi ho letto anche io quel piccolo taccuino di viaggio che Cognetti ha scritto, più per lui che per gli altri, riuscendo però a portare tra le cime dell’Himalaya chiunque lo abbia letto.
E credo anche che Cognetti sarebbe contento di sapere d’avere un lettore, un compagno di viaggio, un po’ sfacciato, un po’ ladro, ma tanto avventuriero.
Paolo Cognetti abita tra la città e una baita a duemila metri. Ha vinto il Premio Strega con la sua opera più celebre e amata: Le otto montagne (Einaudi 2016).
E di nuovo nella sua ultima opera: Senza mai arriva in cima, s’interroga e ci interroga su cosa significhi andare in montagna, andarci senza però l’obiettivo di arrivare in cima.
Il suo è un inno al camminare e al sapersi fermare e ammirare ciò che la natura si/ci offre, al silenzio e alle paure che nascono da questo, alla solitudine e alla compagnia di chi con noi condivide il viaggio, un viaggio speciale: verso noi stessi.
Non è solo un libro ma anche un racconto illustrato, da una matita debole, quasi a non voler disturbare il paesaggio che ritrae.
È un viaggio alla scoperta di sé, ma anche attraverso gli altri, soprattutto quelli che non ci comprendono, tanto siamo diversi, tanto siamo lontani.
La donna evitò di porre la domanda successiva, e cioè perché noi occidentali venissimo fin lì a faticare, dormire per terra, soffrire il freddo e coprirci di polvere senz’altro scopo apparente che allontanarci dai nostri letti caldi e dalle nostre macchine veloci, ma gliela leggevo in faccia. Se avesse avuto le parole per formularla, io avrei trovato quelle per rispondere?
Anche i cani dell’Himalaya appaiono diversi dai cani occidentali, un attimo ci sono, l’attimo dopo no. Sembrano non legarsi, ma è in quell’apparente assenza di legame che esiste la libertà di un rapporto, capace di lasciar camminare sia da soli, che con gli altri, senza mai tralasciare chi sceglie di darti quella libertà, così da suggellare nella bellezza incontrastata i momenti condivisi, privandosi dell’abitudine e della noia.
La storia di Cognetti non è un’avventura, non è una rinuncia, è la volontà di percorrere un viaggio realmente non occidentale – giungere su la cima dell’Himalaya e scattarsi un selfie è estremamente occidentale e capitalista – dentro di sé, all’alba dei 40 anni, così da riordinare le priorità di una vita.
È una lettura veloce, diversamente proporzionata all’andatura lenta della camminata dell’autore, che ho imparato a conoscere attraverso i suoi passi e la sua penna.