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Rock or dust

Fear Inoculum: la grande lezione dei Tool che viene dal passato

Eppure, dovremmo essere grati ai Tool, nonostante ci abbiano fatto aspettare 13 anni. Perché ci insegnano che non tutta la musica prodotta oggi deve rispondere all’esigenza di un mercato usa e getta. Poi, perché sono l’esatto contrario dei prodotti preconfezionati stagionali delle grandi label, e non sono alla ricerca spasmodica di un passaggio radio di 3 minuti e di un posto in classifica. Infine, perché le loro canzoni si vivono, e i loro album si ascoltano in blocco, tutto d’un fiato. Fear Inoculum va ascoltato molte volte, prima che possa penetrare la corazza ispessita da migliaia di ascolti di Aenima, Lateralus, e 10.000 Days. Fino al momento in cui la struttura portante del disco emerge nella sua unicità e grandiosità, fin quando il retropensiero di “quello che avrei voluto ascoltare da loro” coincide completamente con l’estasi assoluta di “quello che sto ascoltando”.

Il mondo si è fermato all’uscita del quinto lavoro della band americana. Un evento reso epocale dalla paradossale ma funzionale strategia di marketing del gruppo. La lunga attesa non fa scemare l’interesse, perché i Tool non sono un fenomeno di costume o una band di nicchia adorata solo da una poco folta schiera di fan inossidabili. Sono una lezione che viene dal passato, che si impone ad un presente incamminato in tutt’altra direzione. Un disco di circa 85 minuti, il primo singolo di oltre 10 minuti a entrare nei primi 100 singoli in America. Un lavoro mastodontico che si sta impossessando di Spotify, la piattaforma per eccellenza dell’ascolto mordi-e-fuggi.

FEAR INOCULUM: LA RECENSIONE

I Tool non producono canzoni, ma lunghe suite che impongono un ascolto attento e costante. Come facevano i grandi gruppi prog del passato: o ci ascoltate in tutto quello che abbiamo da offrirvi, o potete anche dedicarvi ad altro. Noi siamo questi, punto. E nessun altro artista può rivoluzionare così il mercato musicale di oggi. Forse i posteri ci daranno ragione, o ci diranno che stiamo esagerando. Rolling Stone ha scritto che “i Tool forse non sono mai stati più rilevanti di adesso. In un mondo così, con la loro musica caotica introspettiva e tribale, sono l’unica rock band possibile”.

Fear Inoculum esplode come una bomba lasciando capire che, forse, c’è ancora speranza per la musica. E’ senza dubbio, e più di ogni altro album, un lavoro in cui spicca il chitarrismo potente, educato, raffinato ed evocativo di Adam Jones. Ed è anche il lavoro in cui Maynard Keenan offre una prova di maturità: non più una vocalità aggressiva e prepotente, con scatti rabbiosi e punte malinconiche. Il suo canto è meno preponderante e più dosato: un accompagnamento alle impetuose sessioni ritmiche di Carey e Chancellor, a volte un intermezzo tra le armonie e le melodie sovrapposte di Jones, quasi angelico in alcuni momenti.

Eppure, il disco non perde mai di forza, anzi: compatto nella sua potente barriera di suono, evocativo e lugubre, onirico e cerebrale. Tutta l’eredità dei lavori precedenti della band rivive nelle sette tracce, alle quali si accompagnano i brevi intermezzi ambient di Legion Inoculant, Litanie contre la Peur e la conclusiva Mockingbeat. Una pausa tra un viaggio ed un altro, un modo per introdurre al meglio e centellinare con cura l’ascolto del passaggio successivo. Geniale.

La title-track accompagna con calma nel nuovo universo dei Tool, più maturo ma non per questo meno sconvolgente. Una sorta di meditazione zen sulla lotta contro le proprie paure, su come riconoscerle e sconfiggerle. Un intreccio di suoni che sale lento e inesorabile, cullato dalla voce di Maynard e dai tamburi etnici di Carey. Ma è con Pneuma che diventa tutto più chiaro: siamo noi, non ce ne siamo mai andati. Potremmo dire che c’è un po’ di Schism e un po’ di Right in two, ma non renderemmo bene l’idea: un capolavoro in continuità con i precedenti, ma unico.

Il successivo binomio InvincibleDescending, entrambe già presentate dal vivo nei concerti estivi, spazza via ogni residuo dubbio (se qualcuno ne aveva…). Lunghe incursioni in sorprendenti armonie, sfoggio di tecnica impeccabile e mai barocca, esplosioni di doom metal e atmosfere accattivanti, cullate dalla voce inconfondibile di Keenan. Una voce che diventa malinconica e suadente in Culling Voices, pezzo dalle tonalità minimaliste ed esistenzialiste prima del crescendo finale. Infine, dopo l’innovativo intermezzo ethno/ambient Chocolate Chip Trip (con uso di synth in stile cyberpunk), la mastodontica 7empest. Dura e spigolosa, come alcuni passaggi di Aenema: forse l’unico pezzo a non raggiungere in pieno l’obiettivo, ma pur sempre un pezzo dei Tool. Quindi, inarrivabile per qualunque altro essere umano.

In definitiva? Forse non c’è un singolo che spicchi particolarmente rispetto agli altri, ma non ci sono concessioni “simil-adolescenziali” che avevano in parte adornato 10.000 Days. C’è tutta la grandiosità stilistica di un gruppo che (e su questo i posteri non potranno che concordare) ha fatto e sta facendo la storia della musica. Possiamo essere decisamente grati ai Tool. Perché esistono.

 

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