Conosco, nella mia vita, solo un bisogno più grande di quello d’amare: il bisogno di scrivere. Forse l’uno non è che il compimento dell’altro, forse non riuscirei ad amare qualcuno – o qualcosa – se non scrivendo. Forse non riuscirei a scrivere, se non amando.
Mi è capitato più volte di chiedermi da dove mi venga, questa necessità di fare del sangue inchiostro e della pelle carta. Mi sono anche risposta, qualche volta, ma come un’annotazione a margine del foglio, senza troppa importanza, mai definitiva. Mi affascina molto di più, da sempre, sapere perché gli altri scrivono, sapere cosa mi accomuna a questa umanità di amanuensi del sentimento. Così, negli anni, mi è piaciuto raccogliere pensieri, consigli e aneddoti di grandi autori passati e presenti sul tema dello scrivere.
Nasce così IO SCRIVO, una rubrica-dialogo attraverso cui indagare questo bisogno di metterci nudi nero su bianco, basata su un’unica domanda: Perché scriviamo?, chiedo. Mi rispondono echi vicini e lontani, fruscii di carta da lettera, rumori di sedie che si aggiustano alla baia di scrivanie in bilico tra questo mondo e altri. Perché scriviamo?, oggi, lo chiedo ad Isabel Allende.
Scrittrice sudamericana per eccellenza, la Allende fornisce una risposta ad un tempo assai poetica ed assai pratica.
Innanzitutto, mi dice, ha la ferma convinzione che ogni tentativo di scrittura debba essere radicato nella propria esperienza personale:
“Ho bisogno di raccontare una storia. È un’ossessione. Ogni storia è un seme dentro di me che cresce e cresce e cresce, come un tumore, e so che dovrò averci a che fare, prima o poi. Perché una storia in particolare? Quando inizio, non lo so. Lo scopro molto dopo. Col passare degli anni, però, ho scoperto che ogni storia che io abbia mai raccontato, alla fin fine, ha a che fare con me. Se parlo di una donna di epoca vittoriana che lascia la tranquillità della sua casa e corre verso la febbre dell’oro in California, in realtà sto parlando di femminismo, di liberazione, di quel processo che ho vissuto sulla mia stessa pelle, scappando da una famiglia cilena, cattolica, conservatrice e patriarcale e correndo incontro al mondo.”
E quello che racconta, Isabel Allende ci tiene a raccontarlo in maniera precisa. Di lingua spagnola per nascita, impara con fatica e con impegno a farsi strada in quella giungla di aggettivi e pronomi tenendo a modello nella sua mente, come un machete, l’inglese, una lingua scarna, semplice e, appunto, precisa:
“Nelle lingue romanze, lo spagnolo, il francese, l’italiano, c’è un modo di dire le cose pieno di orpelli che, in inglese, non esistono. Mio marito dice che riesce sempre a capire quando riceve una lettera scritta in spagnolo: la busta è pesante. In inglese, una lettera è lunga un paragrafo: vai dritto al punto! Leggere in inglese, vivere in inglese, mi ha insegnato a ricercare le parole più belle, ma soprattutto quelle più precise. Troppi aggettivi, troppe descrizioni – saltali! Non sono necessari! Ultimamente ho riletto La Casa degli Spiriti e, mio Dio, quanti aggettivi! Perché? Usa un unico nome utile al posto di tre inutili aggettivi!”
E, sebbene scrivere sia un bisogno che travalica la regione della razionalità (la stessa Allende dirà in un’intervista che le storie che scriviamo accadono nel nostro ventre: non arrivano alla mente se non in fase di correzione), esiste comunque una sorta di etica del lavoro che rende il mestiere di scrivere un mestiere come ogni altro, con le sue idiosincrasie, i suoi riti, le sue frustrazioni:
“Comincio tutti i miei libri l’8 gennaio. Riesci a immaginare il mio 7 gennaio? È un inferno! Ogni anno, il 7 gennaio, comincio preparando il mio spazio fisico. Metto via tutto il materiale che riguarda i miei libri precedenti, lascio sulla scrivania solo il dizionario e le ricerche per avviare il nuovo progetto. E poi, l’8 gennaio, percorro i diciassette gradini che mi portano dalla cucina alla casetta sulla piscina che è il mio ufficio. È come fare un viaggio verso un altro mondo! È inverno, di solito piove, ci sono solo io col mio ombrello e il cane che mi segue. Arrivo in quest’altro mondo e anch’io sono un’altra persona. Arrivo spaventata. Ed eccitata. E delusa – perché avevo una sorta di idea, ma non prende forma. Le prime due, tre settimane vanno perse. Riesco solo a sedermi davanti al computer. Ma se siedo abbastanza a lungo, alla fine arrivano anche le Muse. Anche se non arrivano al primo invito, prima o poi arrivano.”
Sempre fiduciosa nella possibilità che la vita scivoli naturalmente nella scrittura, Isabel Allende c’ha dovuto, alle volte, far rientrare persino la morte:
“Mia figlia Paula morì il 6 dicembre del 1992. Il 7 gennaio del 1993 mia madre mi disse: domani sarà l’8 gennaio. Se non ti rimetti a scrivere, morirai. Mi consegnò le 180 lettere che avevo scritto mentre Paula era in coma e uscì. Quando tornò, sei ore dopo, ero in un mare di lacrime, ma avevo buttato giù le prime pagine di Paula. Scrivere per me è sempre stato riuscire a dare un ordine al caos della vita. Scrivere rimette a posto la vita e i ricordi.”
Infine, per concludere, Isabel Allende ha tre piccoli suggerimenti per gli aspiranti scrittori:
“1. Vale la pena trovare la parola più precisa per esprimere un concetto o richiamare un sentimento. Usa un dizionario, usa l’immaginazione, grattati la testa finché non ti viene in mente, ma trova la parola giusta!
2. Quando la storia inizia ad andare per conto suo – quando i personaggi prendono forma, puoi vederli, vengono a trovarti, fanno cose che non ti saresti aspettata e che non avevi programmato – allora è segno che il libro ce l’hai già da qualche parte, si tratta solo di trovarlo e trasportarlo, parola per parola, in questo mondo.
3. Quando racconti una storia ad un amico nella tua cucina, la storia è piena di errori e ripetizioni. Va bene evitarlo, in letteratura, ma ricorda che una storia deve sempre suonare come un dialogo: non stai facendo lezione!”
Marzia Figliolia