Uscire da casa e camminare per Firenze significava per Corinna non lasciarsi morire di noia nella sua stanza. La noia patologica rende inabili alla vita, alle cose che comprende e rievoca.
E poi non c’era niente da fare: la tricotillomania impediva a Corinna di vivere con calma.
Forse, si ripeteva, se riuscissi a diventare una scrittrice questa mania mi abbandonerebbe.
Lucrezia Lerro conferma per l’ennesima volta di saper scrivere, ma soprattutto dimostra la sua naturale capacità di scovare storie forti e viscerali da raccontare.
L’estate delle ragazze pubblicato da La nave di Teseo narra la vita intima di Corinna, una giovane «bella e inquieta» che dal sud Italia giunge a studiare Lettere a Firenze.
Corinna sogna di diventare una scrittrice, si esercita ogni giorno affinché il suo sogno diventi realtà. Il fidanzato, Jacopo, la sprona e la sostiene, anche economicamente, onde completi gli studi, che Corinna inizia a vivere come un peso e uno ostacolo.
I due innamorati vivono una storia d’amore a distanza e lei affoga la sua solitudine e le sue ansie strappandosi i capelli.
Corinna sa che per diventare una scrittrice sincera e profonda deve scavare a fondo di sé, scoprirsi e rivelare prima a se stessa poi ai suoi lettori le sue «radici feroci».
Scrive per affermare la sua esistenza.
Corinna ci confessa tutte le sue paure e ossessioni facendoci immergere nell’età «più crudele e intensa», vogliosa di non accontentarsi ed essere penna in un mondo di maschere.
Nel romanzo della Lerro – di non facile lettura a causa della materia che indaga – emergono prepotenti tre filoni, narrazioni o meglio resoconti: la noia come causa, l’ossessione come sintomo e la scrittura come medicina.
La protagonista attraversa tutte le fasi, ma solo alla fine ci si accorge della natura di queste e della loro precisa successione, poiché Corinna le vive in preda alla voracità, senza logica e con la solo brama d’avere materiale per il suo inchiostro.
Corinna utilizza la scrittura per sublimare le proprie emozioni non riuscendo ad intercettare la profondità delle situazioni e relazioni che vive, ma lei questo non lo sa.
Attraverso mondi paralleli da lei abilmente costruiti racconta la sua vera natura, illudendosi che sia tale e non frutto dei suoi ideali dettati dalla paura e dall’ossessione.
Dunque bisogna interrogarsi sul fatto che la scrittura, per Corinna, non è la medicina, ma un’ossessione e perciò anch’essa un sintomo; poiché la preoccupazione verso il futuro viene alimentata anche dall’insoddisfazione procurata dalla scrittura: quello che comporta è solo un benessere effimero, capace di alleggerire la sensazione di pesantezza e soffocamento per poco, ciò che resta è la frustrazione esercitata dalla reale possibilità che quelle lettere siano destinate a rimaner chiuse dentro una stanza.
[…] Corinna ha paura delle ragazze che non conosce, ha paura di essere niente ai loro occhi; di essere la meno bella, la meno simpatica, la meno furba, la meno slanciata. Ma in cuor suo sa di avere una cosa che loro né capirebbero né apprezzerebbero: il talento delle parole, il saperle scrivere.
Allora qual è la medicina capace di alleviare le nevrosi della giovane donna?
Non so rispondere. Non lo so fare perché Corinna è stata per me il mio specchio, mai avevo trovato un personaggio capace di raccontarmi nella mia totalità, e non parlo di empatia.
Perciò sopra scrivo «di non facile lettura…».
Anzi, forse so rispondere: se pensi che la scrittura sia la tua vita, tanto da renderla un’ossessione, fermati. Inizia a leggere, non scrivere, leggi e basta. Scoprirai di non essere sola.